IL VERDETTO DEL PORTAFOGLI

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Appena dieci ore dopo la fine del terzo incontro con Romney, vinto ai punti dal presidente per resa preventiva di un avversario troppo digiuno di mondo, una grandinata di cattive notizie economiche si è abbattuta sulla nazione.
Grande azienda dopo grande azienda, dalla DuPont chimica alla Xerox, dal mega corriere Ups, barometro sensibilissimo del mercato, alla Reynold alluminio, hanno comunicato i risultati delle «trimestrali», l’andamento delle vendite, e il quadro è cupo.
Wall Street, quella Borsa alla quale più di cento milioni di cittadini qualsiasi hanno affidato le proprie pensioni e il proprio «nido» di risparmi, ha subito un altro colpo durissimo, il secondo in tre giorni. E quei bilanci fanno sospettare che l’ultimo dato sulla disoccupazione, annunciato appena quattro giorni prima del voto del 6 novembre, sarà  negativo. Aziende che non fanno profitti, o che non prevedono di farne, non assumono.
Nella foga di valutare gli scontri televisivi diretti e nell’assegnare pagelle, si dimentica che lo scopo del gioco non è vincere i dibattiti, ma vincere un’elezione, come ha detto John Kerry, l’ex candidato e sparring partner di Obama, che di sconfitte s’intende. In questa prospettiva, la sola che importi davvero oltre le reazioni, i commenti, la pioggia di «tweet» sulle battute e le gaffe, la catastrofe del primo incontro rimane l’evento che ha cambiato la traiettoria di questa elezione in favore del finanziere repubblicano. Nessuno dei due successivi, assegnati al presidente scosso dalla micidiale abulia del primo, sono riusciti a fermare né a invertire la tendenza.
Tutto quello che Romney il camaleonte, l’uomo per tutte le mezze stagioni doveva fare, nelle ultime settimane, ha fatto. Doveva svoltare al centro e trasformarsi in un moderato, puntando a quella sottile fetta di elettori oscillanti che sempre determinano l’esito finale del voto in un sistema realmente bipartitico. Lo ha fatto. Doveva rassicurare gli incerti sulla propria ragionevolezza di futuro «comandante in capo» e indossare le penne della colomba per un giorno. Lo ha fatto. Aveva l’obbligo di dipingersi come un «non Bush », il presidente innominabile che i repubblicani vorrebbero poter dimenticare e neppure invitarono al loro congresso, pur essendo lui circondato dalla stessa conventicola di neo con che controllavano Bush il giovane. Lo ha fatto.
Il pericolo, per il nuovo Romney 2.0 visto nei dibattitti era quello di perdere per strada l’elettorato di estrema destra, i fanatici dell’antistato, i più ideologizzati, ma tutti i sondaggi ormai rinchiusi nel margine di errore anche negli Stati decisivi, come Ohio, Wisconsin, Colorado, Florida, dimostrano che questo non è accaduto. La spiegazione è semplice: l’odio profondo, irrazionale, viscerale di una parte degli americani per Obama l’usurpatore, il «mussulmano», l’alieno, il «comunista », è più intenso e bruciante di ogni perplessità  sulla sostanza intellettuale o politica del suo avversario. «Chiunque purchè non Obama» è la vera motivazione, l’ideologia unificante e mobilitante dei repubblicano 2012. La miscela di odio ed economia asmatica è ciò che ha trasformato l’autostrada per la Casa Bianca sulla quale un mese fa Obama viaggiava, nel sentiero strettissimo di oggi.
I dibattiti, come sempre accaduto, sono serviti a confermare i pregiudizi, non a cambiare i giudizi sui candidati. E non poteva essere una discussione sul peso delle sanzioni contro l’Iran, sui futuri rapporti con il Pakistan, sui millimetri di distanza politica fra gli Usa e Israele, o il terribile, vergognoso silenzio di entrambi sui Palestinesi ignorati, a spostare umori, in una nazione che passa dall’agitazione all’indifferenza quando si tratta di politica estera.
L’America disegnata nel terzo incontro riservato alla politica estera è una «superpotenza rimpicciolita », stanca di un mondo nel quale ha buttato via troppe vite, troppo prestigio e troppa ricchezza per continuare a occuparsene.
Nella campagna elettorale del 2008 per le primarie democratiche, Hillary Clinton insistette molto sul tasto della inesperienza internazionale e strategica del troppo giovane senatore dell’Illinois, Barack Obama. Se il telefono accanto al letto del presidente squillasse alle tre del mattino annunciando una crisi grave, chi vorreste che fosse a rispondere? Domandavano gli spot di Hillary. Dal 20 gennaio prossimo, se Obama non dovesse resistere sulla linea del Piave in due o tre stati chiave, potrebbe essere Mitt Romney, colui che ha definito la Russia il «nemico mondiale numero uno» dell’America, a rispondere a quel telefono.
Mentre all’orecchio gli sussurreranno gli stessi consiglieri che spinsero George W Bush sulla via di Baghdad, a caccia di arsenali che non c’erano.


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