Il ruolo di Palazzo Chigi e quegli equilibri cambiati con Berlino e Bruxelles

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MILANO — Era il 20 febbraio quando il governo di Mario Monti, in carica da meno di tre mesi, sorprese molte cancellerie. La firma del premier italiano è la più vistosa nell’elenco dei 12 che pubblicano una lettera capace di mandare in Europa un segnale nuovo: un documento che enumera misure per la crescita e l’occupazione che né la Germania di Angela Merkel, né la Francia dell’allora presidente Nicolas Sarkozy sottoscrivono. A quell’iniziativa, pensata e promossa per l’Italia dal ministro Enzo Moavero, partecipano Paesi che a quei tempi di rado venivano associati all’Italia: fra gli altri l’Olanda, la Gran Bretagna, la Danimarca, la Polonia.
Erano anni che un’indicazione così chiara all’Europa non veniva da capitali diverse da Berlino e Parigi. La prassi era che ogni vertice europeo fosse inquadrato dalla liturgia di una lettera e di un incontro preliminare Merkel-Sarkozy. Probabile che quell’episodio di febbraio sia tornato in mente in questi giorni a qualcuno degli sherpa di Palazzo Chigi, Farnesina o Tesoro. Da quei palazzi nessuno ha commenti da fare sul rimprovero mosso da Silvio Berlusconi e Monti di essersi appiattito sulle scelte tedesche. Non c’entra solo il fatto che il premier ha governato (e governa) con i voti vinti dal suo predecessore alle politiche del 2008. Conta almeno altrettanto la consapevolezza che il quadro politico resta fluido e alimentare l’incertezza rischia non fa che alzare i tassi d’interesse e il conto per i contribuenti.
Ma a Palazzo Chigi anche in queste ore dev’essere difficile dimenticare la navigazione degli ultimi mesi. Duello dopo duello, frase dopo frase. «Mario, questo non aiuta» disse Angela Merkel quando Monti al vertice europeo di giugno annunciò che avrebbe messo una «riserva» sulle conclusioni, qualora non si fosse mosso un passo in più. Il premier esigeva che fosse resa credibile la facoltà  del fondo salvataggi (il cosiddetto Esm) di acquistare bond sovrani dei Paesi in difficoltà . Non era mai successo che l’Italia mettesse un veto così pesante in un vertice europeo. Se è toccato a Monti, uno dei premier più europeisti, è perché il suo governo era partito da quella lettera di febbraio e dal vertice del G20 di Los Cabos in giugno per cambiare la geometria delle alleanze dominanti. Dopo l’elezione all’Eliseo del socialista Franà§ois Hollande, il duopolio franco-tedesco su qualunque decisione si stava dissolvendo. Lo stesso premier spagnolo Mariano Rajoy era pronto a smarcarsi da una linea di attenzione esclusiva verso Merkel, sua collega nel Ppe: ormai prendeva forma anche un polo di riferimento alternativo.
L’Italia ha visto in quei mesi che gli equilibri di un’Europa a esclusiva trazione franco-tedesca potevano cambiare. E il governo ha alimentato quell’evoluzione tramite l’agenda per la crescita e l’accento sul sistema di acquisti di bond, lo scudo salva spread. Al vertice di giugno, dopo quel veto italiano in piena notte, lo «scudo» è emerso in qualche forma nel documento finale. Merkel aveva accettato, benché solo poche settimane prima ciò sembrasse impensabile. La strada era aperta perché la Bce di Mario Draghi, nella sua indipendenza, imprimesse la svolta di agosto che continua a tenere gli spread sotto controllo.
È ormai un’Europa diversa da quella di «Merkozy». L’Italia non protesta più, forse perché percepisce che non è isolata e ha aiutato a alterare gli equilibri; anche la Germania si è mossa abbastanza da non essere neanche più un blocco solo: la Cancelliera da una parte, la Bundesbank da un’altra, il Bundestag in mezzo. A Palazzo Chigi in questi giorni qualcuno avrà  pensato all’ultimo anno di svolte e sorprese. Ma senza fretta, perché non è ancora tempo di tirare bilanci.
Federico Fubini


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