Il ritratto del Cavaliere firmato Tarantini

by Sergio Segio | 8 Ottobre 2012 8:08

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MA SOLO le carte processuali di Bari ci restituiscono tutto intero Gianpaolo Tarantini e quel suo codice di vita che ancora e sempre, e forse ancora più di sempre, è la dannazione dell’Italia: «organizziamo un pranzo», «ti faccio un bonifico», «ho le pezze al culo», «mamma mia quanto ho scopato».
Riemerge dunque il mascalzone italiano, nella versione del dolente e dello sconfitto – «sono disperato, sono io il coglione» – da queste pagine giudiziarie che, finalmente depositate, non sono foglie d’autunno e non sono storia antica, ma documenti di identità , la faccia di una nazione, perché Tarantini che apparecchiava a pagamento la città  delle donne di Berlusconi «sfatto di sesso», «morto », «distrutto», rimane l’inimitabile professionista della crapula triste che oggi come allora è la cifra delle feste nazionali. E si capisce subito che i consiglieri della Regione Lazio, i De Romanis e i Fiorito, con i loro maiali e i loro Suv per la neve, al confronto di Tarantini sono pittori della domenica, se mai la crapula fosse un quadro.
Tarantini del resto è il mascalzone laico e traversale che organizzava anche le notti brave di Sandro Frisullo, ex vicepresidente della giunta Vendola, dalemiano, e gli pagava il cappotto e le scarpe, gli metteva a disposizione l’auto con l’autista, un appartamento, le donne… Poi «ogni tanto arrivava il motorino e gli dava il pacco giallo» che è l’abito e la segnaletica cromatica della corruzione. Invece la consegna, «anche in barca e sul gommone», della cocaina è «il gesto del paccotto».
Di sicuro la cocaina è il formaggio che meglio si addice al mondo di Tarantini viziato e capriccioso ma alla fine perdente. E difatti nelle carte processuali non c’è solo la malinconia di mille bonifici «tornati indietro» e «assegni insoluti», insieme a «ora vado alla banca e mi incazzo di brutto» e «quando mi saldi quel cazzo di fattura?». E’ vero che Tarantini succhiava a Berlusconi, per l’organizzazione dell’ormai famoso sultanato felliniano, uno stipendio di 14mila euro al mese più cinquecentomila “una tantum”. Ma era l’altro – ricordate? – il Lavitola, il mascalzone ridente che tratteneva il danaro. E perciò Tarantini si disperava, non poteva pagare il superconto del salumiere, 15mila euro di affettati d’oro, di voluttà  animalesca. E invidiava Lele Mora «che fa schifo a Berlusconi» ma almeno «quattro milioni se li è presi», anche se poi «Emilio Fede, a tromba, l’ha truffato ». Ed è ben ricordare che Lavitola diceva a Tarantini «sei il fratellino mio più piccolo» mentre gli rubava tutto, anche la moglie e non solo perché sosteneva che «più merda c’è e meglio è».
Non c’è nulla di allegro in Tarantini, è una maschera drammatica che sente arrivare la devastazione della famiglia e combatte con le nevrosi della moglie: «non ho una lira» «quando mi dai questi soldi?» «non posso pagare l’ecografia ». E poi «l’antibiotico», «le analisi», roba da casellario giudiziario venata di malinconie familiari alla Pietro Germi. Neppure il sesso è allegro : «’mo me freco a quella là , la Judith, la porto al Principe, pranzo …, ceno lì, champagne, la freco e me metto a dormì». E ancora: «Ho visto salire donne da Tarantini quando c’era anche la moglie in camera».
Gianpaolo Tarantini è un caso a parte rispetto al modello di mascalzone di cui in questi anni abbiamo sentito l’elogio, è più classico, più vicino al
prototipo italiano di Dino Risi e al catalogo dei nostri mostri che ai banditi del berlusconismo, ai Briatore e ai Verdini, ai Bisignani e ai Previti. Pronto a infilarsi dovunque e a vestire tutte le bandiere, non è il figlio di una tribù politica, ma è un tecnico della mascalzoneria, un esperto che conosce le regole e perciò somiglia ai finti invalidi, a quel signore che ha ottenuto la pensione per cieco ma guida la macchina, al telefonista assunto dalla Regione perché muto. Ed è vero che era contento quando Berlusconi lo voleva candidare alle europee: «listone bloccato», «sono il secondo», «è matematico». Ma lui giocava con la politica come giocava con le donne e con i bonifici. Insomma non è un magliaro della politica, ma un magliaro e basta.
E Tarantini non capisce Berlusconi perché al suo posto si comporterebbe in un altro modo. E però racconta Villa Certosa come nessuno era mai riuscito a raccontarla: «100 ettari e non i poliziotti ma, iiii, l’esercito. E gente che girava con i motorini tipo quelli della malavita, con i mitra e la pistola in mano, e io avanti abbracciato con lui, cinquanta eravamo, in una specie di processione, e lui si fermava, tutto buio,e con la lampadina ogni tanto faceva vedere le sculture e, a un certo punto, madonna!, ci indica una montagna…: il vulcano, il vulcano! E scende la lava …». E le giostre, il giardino, e poi la nera, e Simon Le Bon che canta, e «anche Apicella ha cantato». «E alle due e mezza è impazzito per la fidanzata di Vignola. E c’era tutto il privé del Billionaire, noi, Simona Ventura, Percassi… E le persone che cantavano Silvio c’è, graaaazie Silvioooo, Silvio c’è, è pazzo proprio… E stava tutto di blu con la giacca tipo smoking…».
Meglio di tutti i giornalisti e di tutti gli scrittori che si sono cimentati con Berlusconi, Tarantini, a bocca aperta, ha spiegato così al fratello la berlusconità , ma sarebbe meglio dire, visto il tono ammirato e canzonatorio, la berlusconaggine. Il testo di quella lunga telefonata meriterebbe lo Strega e il Campiello unificati. Anche gli aggettivi contraddittori che gli vengono in gola per il suo Berlusconi sono appropriati: «simpatico», «pazzo», «malato», «dittatore», «sfatto di sesso», «ossesso», «usa gli altri come schiavi». E persino lui, Tarantini, si imbarazza quando Berlusconi lo prende a braccetto e gli dice «le donne le facciamo ballare, tutte là  sopra, tutte per noi». No, neppure lui, neppure Tarantini usa le donne così: «Sempre sto cazzo di donne, sesso, sesso, donne, sesso, donne… che rompeva i coglioni».
Perciò ascoltare questa telefonata o leggerla tutta di un fiato significa davvero capire che cos’è il mondo di Berlusconi, la cartapesta, il bisogno di rendere solida la pacchianeria dei propri fantasmi, la fantasia come patologia che ha infettato tutto il paese producendo non più i mostri definiti e tipizzati del presepe di Risi, ma le mostruosità  di massa, i maiali e i grecoromani, mostruosità  di branco che, scendendo per i rami dell’albero della truffa, arrivano ai Fiorito e a quella Veronica Cappellaro, presidente della Commissione Cultura della Regione Lazio che è fiera di essere riuscita a presenziare alla festa della cacca, spinta dal richiamo del ruolo e senza neppure essere stata invitata.
E Tarantini, fornitore ufficiale di carne femmina, ha avuto anche il ruolo del testimone, destinato ad essere rilasciato per raccontare al mondo la potenza dell’uomo che si è messo a vivere dentro Sex and the city, dentro Beautiful, dentro i Sopranos. Anche fisicamente non somiglia agli altri manichini della casa, e solo apparentemente è il fratello gemello d Nicole Minetti. Se vi capiterà  di incontrarlo alla Messa o nei saloni superlussuosi della Peschiera di Monopoli sono certo che anche voi, dopo la prima smorfia di fastidio, noterete le occhiaie, la magrezza, le mucose segnate di rosso, il passo veloce ma trattenuto di chi ha pratica a districarsi tra corpi e bicchieri, tra sniffate e ritmi ossessivi della musica. E insomma conterete tutti i segni dolenti che si porta addosso.

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