Il rischio di perdersi nell’Altrove
A ssaporare l’isolamento è diventato difficile. Quasi ovunque si avverte la presenza della civiltà a pochi passi e sopra la testa, nell’etere. Per sperimentare l’ebbrezza del nulla intorno, della vera solitudine e della natura incontaminata, occorre ormai raggiungere zone remote e inospitali del pianeta, dove l’intraprendenza dell’essere umano non ha ancora osato spingersi e la rete telefonica è smagliata.
Qualcuno è disposto a farlo sul serio. In un recente viaggio alle Isole Svalbard, oltre il Circolo Polare Artico, ho saputo di un gruppo di cacciatori — i trapper, come vengono chiamati —, che abitano sparpagliati in quelle terre gelide, lontanissimi gli uni dagli altri e tutti a più di cento chilometri dall’unico centro abitato degno di questo nome. Vivono in capanne di legno erette sopra i ghiacci permanenti, nutrendosi degli animali che uccidono; mandano segnali radio a giorni alterni all’ufficio del governatore per testimoniare di essere in salute e, in cambio, ricevono qualche rara visita in elicottero con rifornimenti di pasti vitaminici, per scongiurare lo scorbuto. Sono completamente soli (fatta eccezione per gli orsi polari) a temperature che spesso indugiano attorno ai -50 gradi. Se il più anziano tra loro ha superato i settant’anni, il più giovane ne ha appena una trentina, come me: l’esistenza frugale che conduce non può non mettere seriamente in discussione la mia.
Sylvain Tesson ha provato qualcosa di molto simile alla vita del trapper, anche se per cinque mesi «soltanto» e abolendo la caccia a favore della pesca. Il racconto della sua esperienza è racchiuso nel diario intitolato Nelle foreste siberiane, che battezza il rinnovamento della collana Contesto di Sellerio, a opera degli editor Mattia Carratello e Marcella Marini (pp. 253, 16). Dopo una vita passata a spostarsi in lungo e in largo con ogni mezzo a disposizione, dopo avere raggiunto la fama internazionale come scrittore e globetrotter, Tesson ha inaugurato una nuova forma di esplorazione, stanziale. Non ne poteva più della frenesia malsana che afferra ogni viaggiatore, della smania compulsiva di vedere sempre di più. Desiderava entrare in profondità dentro lo spirito di un luogo e ha eletto allo scopo le sponde gelide del Lago Bajkal. Nella sua casupola lontana da tutto al Capo dei Cedri del Nord, strappato brutalmente agli agi parigini, Tesson impara in fretta a spaccare la legna, a pulire i pesci dalle interiora, a orientarsi nella miriade di rumori e scricchiolii che il ghiaccio produce. Come unica compagnia ha dapprima una cincia, poi due cani e, sporadicamente, le visite dei russi dispersi come lui nella taiga, con i quali conversa poco ma ci dà dentro con la vodka.
I ritratti sintetici di questi personaggi alludono ognuno a una storia che vorremmo conoscere per intero, ma Tesson è troppo preso dalle variazioni della natura e del proprio stato d’animo per occuparsene. Documenta in dettaglio la sua trasformazione da schiavo del progresso a uomo primitivo, libero e autosufficiente, all’inizio raffrontandola spesso con le letture assortite che si è portato per il tempo libero — «Michel Tournier per fantasticare, Michel Déon per la malinconia, Lawrence per la sensualità , Mishima per il gelo d’acciaio», ma anche Chateaubriand, Nietzsche, Casanova e una quantità di romanzi polizieschi —, infine lasciando perdere anche quelle.
Alla sua nuova condizione arriva ad attribuire non solo una valenza personale, ma anche etica («L’eremita non si permette nessuna violenza ai danni dell’ambiente»), religiosa («Il solitario ha tutto l’interesse a mostrarsi buono con ciò che lo circonda, a trasformare gli animali, le piante e le divinità in fedeli alleati») e politica («Solo le distese sconfinate e deserte consentono un’anarchia pacifista»). Tesson non pone alcuna enfasi sull’eroismo, convinto che la sua impresa non abbia nulla a che fare con un gesto esasperato, assurdo, ma che esso sia piuttosto la messa in atto — un po’ estrema, questo sì — di un bisogno di raccoglimento che accomuna tutti. Come in ogni vero diario, le sue riflessioni non sono rivolte a nessuno in particolare, neppure a se stesso, e manca nel testo quella velleità un po’ disperata che ogni narratore ha di «interessare». Tesson registra fatti e pensieri per il puro gusto di farlo: scrivere, sembra dirci, riempie le sue giornate al pari dello spaccare la legna, e non vi è maggiore nobiltà nell’una o nell’altra mansione.
Alle Isole Svalbard ho portato con me Nelle foreste siberiane, perché mi aiutasse ad apprezzare un paesaggio monotono che, altrimenti, avrei decifrato a fatica — e non mi sbagliavo. Il libro contiene alcune descrizioni miracolose di ciò che Tesson vede dalla finestra del suo rifugio: un paesaggio quasi immobile, sbiancato in ogni direzione dalla neve e dal cielo coperto, eppure insospettabilmente ricco, almeno per chi ha la pazienza di contemplarlo a lungo. Ogni tanto mettevo da parte il volume e guardavo fuori dalla stanza del mio assai più confortevole albergo, verso le montagne irraggiate dalla luce fioca, e soltanto allora riconoscevo certe sfumature, prima invisibili. Pensavo ai cacciatori solitari, al di là dei ghiacciai, con un misto di perplessità e di invidia.
Viene da scommettere che, nell’orgia di comunicazione imposta dai nuovi mezzi tecnologici (più che da esigenze reali), il numero dei trapper e dei novelli Tesson sarà in rapido aumento nei prossimi anni: a esagerazione si risponde con esagerazione. Il «New York Times» ha già evidenziato il fenomeno emergente degli americani che abbandonano città e impiego e si ritirano nei boschi sconfinati dell’Oregon e dell’Alaska, armati di fucile; nel romanzo Nelle terre estreme, Jon Krakauer segue la sfida prometeica alla natura di un post-adolescente; e Jonathan Franzen, nel saggio dal titolo Farther away e pubblicato sul «New Yorker», racconta di quando si è spinto fino a un’isola disabitata al largo del Cile per spargere le ceneri dell’amico David Foster Wallace e rappacificarsi con se stesso.
Non che l’idea sia nuova, da Robinson Crusoe in poi. Ma, se l’isolamento ventennale narrato da Daniel Defoe era soprattutto la conseguenza di un naufragio sfortunato, quello del Crusoe moderno è un atto volontario, dettato dalla necessità di una fuga o di un semplice «farsi da parte»: somiglia molto di più al percorso di separazione dell’anacoreta.
Tesson stesso afferma di avere scelto le rive del Lago Bajkal per scoprire se possedeva o no una vita interiore. Forse, è proprio in questo che io — attratto come lui dalla solitudine ma non così coraggioso — mi trovo in disaccordo, ed è per questo che le mie fughe sono sempre state brevi e un po’ fittizie: ritengo ancora che l’esistenza della vita interiore venga testata meglio in mezzo alle persone che agli orsi, in mezzo alle relazioni umane e al loro tremendo caos, anche se talvolta ci risulta quasi insopportabile.
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