Il progetto: Monti bis e partito ad Alfano

by Sergio Segio | 25 Ottobre 2012 5:58

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ROMA — Per non mettere all’incanto la sua storia, Berlusconi doveva passar la mano tenendo la mano ai suoi eredi.
Non era facile per un uomo che negli ultimi venti anni ha scritto la storia del Paese e del Palazzo. Ma dopo un lungo e tormentato pensamento, mentre intorno a sé vedeva aggirarsi schiere di pretendenti che lo adulavano per accaparrarsi brandelli del suo patrimonio politico, Berlusconi ha scelto. È a Monti che ha deciso di affidare il lascito più importante, è sul Professore che punta il Cavaliere, «perché io non rinuncio all’idea di vederti a capo di uno schieramento dei moderati», gli aveva ripetuto l’altra sera a Palazzo Chigi, tra i contorcimenti di chi cercava un appiglio a cui aggrappare certezze che non aveva: «Insisto. E non ti chiedo di rispondermi subito, ma a questa idea non rinuncio».
In questo gesto c’era un’analogia con il ’94, quando Berlusconi — prima di scendere in campo — si recò da Martinazzoli per invitarlo a «unire i moderati» e impedire la vittoria della sinistra. Ma rispetto ad allora il Cavaliere ha offerto la successione a Monti nel campo che nel frattempo aveva conquistato, non in quello dei tecnici. Raccontano che il premier abbia compreso e invece di lasciar cadere il discorso abbia voluto rispondergli. A suo modo, però, spiegando che l’Italia ha bisogno di un programma di «riforme radicali in senso liberale», prospettando un progetto che per realizzarsi necessita di un «vasto appoggio», facendo insomma capire al Cavaliere che una sua nuova discesa in campo avrebbe ostacolato l’aggregazione delle forze necessarie al disegno.
I dubbi avevano accompagnato Berlusconi per tutta la nottata e anche la mattina dopo, fino all’appuntamento con Alfano che non era più rinviabile. In quel colloquio interminabile non c’erano solo in gioco le scelte politiche ma anche «il legame di affetto e di lealtà » che per il segretario del Pdl sovrintende ogni altro aspetto nel rapporto con il Cavaliere. Una decisione era tuttavia necessaria prima del voto in Sicilia, per mettere il partito al riparo dai rischi di implosione in caso di sconfitta. Ed è vero che Alfano era pronto a dire no all’idea di spacchettare il Pdl, che lì sarebbe rimasto, che lo avrebbe annunciato nelle prossime ore. E l’ha detto, convinto di non aver altra strada, confortato anche da un suggerimento che indirettamente gli era giunto dal cardinal Ruini: «È sempre un errore sciogliere un partito».
L’intento di Alfano non era quello di sfidare Berlusconi, semmai di esortarlo a guidare il rinnovamento. Il pericolo che la riunione finisse con un nulla di fatto, era pari a quello che il segretario del partito annunciasse le primarie dello «strappo». Ed è stato allora che Berlusconi ha definitivamente deciso a chi affidare l’altra parte dell’asse ereditario, e ha ragione il centrista Lusetti quando sostiene che «così come nel ’94, la decisione del Cavaliere di non candidarsi cambia radicalmente lo scenario politico». Lo cambia nel Pdl, perché è Berlusconi a intestarsi le primarie a cui parteciperanno persone a lui vicine. Perché è la successione democratica all’interno di un partito carismatico, che non passa per un parricidio né per un infanticidio.
Il Pdl, o come si chiamerà  in futuro, sarà  un pezzo del nuovo centrodestra. E già  l’impianto delle primarie dovrà  essere nuovo, sicuramente diverso da quello del Pd. Ecco cosa voleva dire Berlusconi parlando di consultazioni «aperte»: niente vincoli, niente regole capestro, perché il vero obiettivo è «riavviare il rapporto con gli elettori, non asfissiare il confronto tra i competitori». Non c’è dubbio che la citazione di Alfano nella nota in cui annuncia la sua decisione di non ricandidarsi a Palazzo Chigi, sia un modo per riconoscere il ruolo al segretario del partito. Ma la corsa del 16 dicembre sarà  libera e senza preclusioni né vantaggi iniziali per nessuno. Così come d’ora in poi finirà  la corsa a inseguimento del Pdl verso le altre forze politiche che fanno parte del campo moderato.
Il partito resta compatto e tutti tirano un sospiro di sollievo, a partire da Schifani che era andato in tv per evidenziare «l’avvitamento» del Pdl e attendeva al pari degli altri quel segnale positivo che è arrivato. Ora il voto in Sicilia fa meno paura: una sconfitta non cambierà  l’agenda del Pdl, un successo gli darà  maggiore slancio. Ad Alfano, in attesa del voto delle primarie, toccherà  iniziare il «reset». Dopo, se riuscisse a vincere, non potrà  restare a gestire con il bilancino gli equilibri di partito, ma dovrà  assumere il ruolo di interlocutore dell’establishment, acconciarsi alle trattative per la sfida elettorale, uscendo dal perimetro in cui si è trovato confinato.
Perché Berlusconi vuole vincere, «io voglio vincere» ha detto al segretario del partito. Ed è evidente che la sua mossa ha spiazzato tutti, a partire da Casini. Così com’è evidente che il segnale era rivolto ad altri interlocutori, a partire da Montezemolo. Ma è su Monti che Berlusconi confida per veder risarcita la sua scelta. Il Professore è «la continuità », Monti è il rappresentante di quella parte di Paese che «non ha mai voluto partecipare alla caccia alle streghe», di quel pezzo di poteri forti che non lo ha «demonizzato». E siccome il Cavaliere non vuole veder disperso il patrimonio politico costruito in diciotto anni, a lui si affida dinnanzi «al pericolo serio», che nel ’94 erano i Progressisti e oggi ai suoi occhi sono i Democratici.
Il resto è tutto in costruzione, è un cantiere che nemmeno è stato aperto. Sulla legge elettorale, per esempio, si vedrà  se Berlusconi continuerà  a puntare i piedi per tenersi il Porcellum o aprirà  seriamente alla trattativa per un nuovo sistema. Ma è chiaro che, facendo un passo indietro, il Cavaliere ha in realtà  fatto un passo avanti nel campo moderato. Come nel gioco degli scacchi, non si è posto su una casella ma la controlla da un’altra posizione. In fondo era una mossa obbligata, così l’avvertiva, specie dopo che Veltroni e soprattutto D’Alema avevano annunciato di non ricandidarsi per un seggio in Parlamento. Una scelta che l’aveva colpito e che è stata tra i motivi della sua decisione.
Le ore convulse e interminabili che hanno sancito il passaggio di consegne sono state vissute con diversi stati d’animo nel Pdl. In molti sono stati presi alla sprovvista, soprattutto quanti speravano che Berlusconi rilanciasse e facesse saltare il partito. Ma il colloquio con Alfano dimostra quale sia il legame tra i due, e testimonia al tempo stesso la crudezza della politica, con le sue ferree regole: «Presidente, è l’ora, dobbiamo scegliere». E il «presidente» ha scelto.

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