by Sergio Segio | 12 Ottobre 2012 7:34
ROMA — Un incontro lunghissimo, in due round, blindato, teso, difficile. E alla fine, Roberto Formigoni, Angelino Alfano e Roberto Maroni hanno deciso di presentare una plastica immagine di unità alle telecamere e ai loro elettori sperduti e basiti. Dopo 7 ore in cui le posizioni iniziali sono tutte alla fine cambiate, con l’intervento forte di Berlusconi sia a tu per tu con Formigoni sia in collegamento telefonico da palazzo Grazioli con la sede del Pdl di via dell’Umiltà dove i tre erano riuniti, la decisione comune è quella alla vigilia più scontata: «Vi avevo promesso un gesto forte di discontinuità e ci sarà — dice un Formigoni stremato ma sorridente — : con l’accordo di Pdl e Lega, la giunta sarà azzerata. Procederò a formarne una nuova nei prossimi giorni, ridimensionata nel numero e con persone di eccellenza». In più, a significare la «svolta», ci sarà un programma rinnovato: «Vareremo entro dicembre la nuova legge elettorale regionale che eliminerà i listini, faremo la riforma sanitaria, del welfare e della riorganizzazione regionale puntando sulla macroregione del Nord».
In poche parole è praticamente detto il senso dell’accordo, e nel non detto c’è quello che è stato per ore il vero oggetto del contendere. «Per noi — aveva iniziato la riunione in mattinata Maroni — c’è solo una strada: azzeramento della giunta e voto nell’aprile del 2013». E questo anche perché, aveva spiegato il leader leghista agli alleati, se si vuole lanciare una nuova alleanza politica per le politiche il Carroccio ha bisogno di agganciarla, giustificarla e rafforzarla con un patto sulla Lombardia. Non tanto per ottenerne la presidenza, visto che – dicono dal Pdl — «sarebbe impensabile che la Lega prendesse la presidenza di tutte e tre le regioni del Nord», quanto per fare una campagna elettorale sulla «continuità del buongoverno» per il Nord.
Ma su questo né Formigoni, che dal mattino aveva messo in chiaro che mai si sarebbe dimesso, e neanche Berlusconi e Alfano, che trovavano assurdo andare al voto per le politiche e assieme per la Lombardia perché «daremmo l’impressione di aver mal governato, di aver alzato le mani su quel po’ di federalismo che rimane, di affidare tutto allo stato centrale, rendendo inutile l’alleanza con la Lega», hanno voluto sentire ragioni.
Poi certo, raccontano che Formigoni avrebbe preferito la formula del «profondo rimpasto» a quella di un azzeramento totale e in qualche modo anche umiliante, nonché gravoso per la governabilità quotidiana. E raccontano che invece Alfano abbia insistito su un gesto «molto forte», sulla cacciata dal partito di chi ha sbagliato, su una inversione di tendenza nei comportamenti e nelle bandiere da sventolare. E, almeno alle prime battute dell’incontro, quando le posizioni apparivano lontanissime e foriere di rottura, sia da Formigoni che da Alfano è stato speso anche l’argomento del «simul stabunt simul cadent», ovvero se il patto va in frantumi in Lombardia ci saranno ripercussioni anche in Veneto e Piemonte, per non parlare delle ipotesi di alleanza a livello nazionale…
Argomento in verità vago (nel Pdl ammettono che «andare al voto in tre regioni anziché una sarebbe stato un massacro»), superato da altri più concreti: come verrà costituita la nuova giunta, accordo sulla legge elettorale nazionale che permetterà di correre insieme alle politiche con salvezza reciproca (e ieri infatti Pdl-Lega e Udc hanno votato assieme il testo base della riforma), programma marcatamente nordista, perché la Lega possa sventolare le proprie bandiere. L’ok di Bossi alla permanenza di Formigoni, arrivato a riunione in corso, ha fatto il resto, convincendo Maroni al passo indietro. Definitivo o meno, lo si vedrà nelle prossime settimane, perché l’equilibrio resta fragile.
Ma intanto Maroni reagisce alle accuse di aver riposto la ramazza per interessi di poltrona con un «io non cedo a minacce o lusinghe della sinistra, non sono un irresponsabile: la Lombardia ha l’eccellenza in tutti i settori». E Alfano assicura che d’ora in poi la «tolleranza zero sarà la nostra bandiera», ma «una Regione che governa bene non va a casa». Si chiude qui dunque, ma le macerie restano: «Certo che lo sappiamo che i nostri elettori potrebbero essere delusi e sconcertati — ammette La Russa —. Ma perché, se andavamo a votare sarebbero stati più contenti?».
Paola Di Caro
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