Il Cardinale che m’insegnò ad arrossire
È passato ormai un mese dalla scomparsa del cardinal Martini e non si cessa di provare meraviglia, in tempi così distratti e sommersi dal susseguirsi degli scandali, della profonda commozione che questo evento — per altro non inaspettato — ha suscitato e continua a suscitare in tante e diverse persone. Ho incontrato il Cardinale un’unica volta, una decina di anni fa, quando mi chiamò a intervenire alla Cattedra dei non credenti. Abbiamo avuto un breve colloquio, prima dell’incontro. Più che di un colloquio si trattò di un reciproco arrossire. Ne rimasi colpita, perché abituata alla sua ieratica figura pubblica e alla lettura dei suoi libri, immaginavo un uomo molto più a suo agio nel mondo. Questa inaspettata ritrosia mi confortò.
In un mondo dominato dalla sfrontatezza, dalla maleducazione e dall’arroganza, la timidezza è rimasta privilegio — e peso — di pochissimi. Che cos’è la timidezza, se non un grande pudore di se stessi, un infantile senso di stupore e di inadeguatezza? È il segno che il bambino è ancora dentro di noi e possiede la grazia di portarci su strade precluse agli adulti.
Mi ha sempre fatto sorridere la volontà di una parte politica di tirare il Cardinale per una manica, come fosse espressione di un’Antichiesa che penso lui non si sia mai sognato di rappresentare. Come mi sembra ormai difficile distinguere con chiarezza cosa sia destra e sinistra in politica, altrettanto incomprensibile mi sembra questa distinzione quando viene applicata agli uomini di Chiesa. Viviamo in una società totalmente scristianizzata in cui la religione appare, ai più, un’ideologia come un’altra — anzi spesso peggiore delle altre, in quanto si permette di interferire nella vita privata delle persone. Dal suo lato, la Chiesa non sembra in alcun modo capace di contrastare quest’immagine; goffaggini, rigidità , anatemi, innamoramenti per il potere temporale la spingono a compiere azioni confuse che spesso le si ritorcono contro. Accanto a questa immagine, ne sussiste un’altra — frutto del lavoro di tanti sacerdoti e di moltissime persone di buona volontà — ed è quella di una Chiesa accogliente e di servizio che affianca l’assistenza sociale nell’aiuto delle persone in difficoltà . È un’immagine veritiera, questa — la carità è una delle anime della Chiesa — ma questa attitudine non avrebbe alcun senso se non fosse costantemente alimentata da un’altra dimensione, quella mistica.
Persone della levatura del Cardinal Martini sono capaci di aprire uno squarcio proprio in questa dimensione, e riescono a farlo non solo in virtù della profondità del loro studio o del potere che hanno raggiunto nella loro carriera ecclesiastica, ma grazie soprattutto al fatto di saper aderire integralmente, con la loro vita, alle parole così a lungo meditate. È questa l’unica grande differenza che divide gli uomini della Chiesa. Ci sono, infatti, coloro che vivono immersi totalmente nella Parola e quelli che lo fanno parzialmente, o strumentalmente.
Nella sua ultima intervista, il Cardinal Martini mostrava la sua preoccupazione proprio per questa eclissi della potenza eucaristica. La sua maggior qualità è stata quella dell’accoglienza e dell’ascolto, della comprensione delle inquietudini dell’uomo moderno, senza mai voler ergersi a giudice, senza voler indicare con imperio una via certa. Non dovrebbe essere questa l’attitudine di ogni persona di fede? Compiere un cammino fino a giungere alla completa consapevolezza dell’amore; quell’amore che non richiede parole strabilianti o gesti eccezionali, ma la semplice, umile, costante attenzione a tutto ciò che ci circonda.
Questi tempi di crisi, stretti tra il tramonto del consumismo e i dogmi dello scientismo — tempi che hanno abolito dall’orizzonte dell’umano una qualsiasi idea di eternità — vedono sempre più persone sprofondare nello smarrimento e nella depressione. Personalmente ritengo lo smarrimento una condizione di grande grazia, perché solo se ci perdiamo, possiamo cominciare a cercare una strada per tornare a casa; solo se non abbiamo certezze, siamo capaci di accogliere in noi il pungolo del dubbio. E questo bisogno di una strada che ci porti nuovamente verso casa, cioè verso il cuore del nostro essere — cuore di luce e cuore di tenebra, cuore di mistero — è una delle esigenze che forse comincia a farsi sentire in modo più vivo nella società , grazie anche alla crisi. Abituati alla facilità e all’immediatezza delle risposte che ci offre questo nostro tempo ipertecnologico, abbiamo perso l’umile capacità di interrogarci e di compiere ragionamenti individuali lontani dalle manipolazioni massmediatiche. La folla accorsa commossa a rendere omaggio al Cardinal Martini — cioè a una grande anima — ci parla proprio di questa necessità , di questa sete che comincia a serpeggiare tra le persone. Sete che non verrà estinta da dotte teologie o da dibattiti sociologici, ma soltanto dall’incontro con uomini e donne santi. Che confusione ruota nella nostra società intorno a questo termine! Subito sorgono alla memoria immagini di fanciulli e fanciulle pii con sguardi mielosi e dolenti rivolti verso il cielo, vite mai sfiorate dall’ombra cupa del male. È questa irritante iconografia che ha allontanato dalle persone l’idea che la santità non sia qualcosa di misterioso, irrazionale e irraggiungibile, ma piuttosto un cammino che riguarda ogni essere umano interessato a raggiungere la pienezza della propria vita. Un percorso che si preannuncia per niente ameno, spesso sporco, duro, privo di autoindulgenze, perché ci porta a confrontarci e a lottare contro l’ombra nera del male che danza senza sosta intorno al nostro cuore. Ma è proprio questa strada che ci consente di arrivare ad essere persone feconde, cioè capaci di generare e rigenerare negli altri la vita. La santità infatti non è altro che la capacità di essere fecondi nell’amore. Il Cardinal Martini è stato un uomo che ha percorso questa strada fino in fondo e la commozione che ha lasciato dietro di sé è proprio il frutto di questa sua capacità di vivere totalmente i valori del Vangelo. Camminavo in mezzo ai prati, in montagna, il giorno della sua scomparsa e, camminando, ho pensato a lui come a un fiore di tarassaco: un piccolo sole giallo in mezzo all’erba che si trasforma, alla fine del suo ciclo, in una manciata di semi piumati, aerei, leggeri, capaci di andare per il mondo trasportati dal vento e di far nascere tanti nuovi piccoli splendidi soli.
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