Idee e miliardi. Così nasce un presidente

by Sergio Segio | 31 Ottobre 2012 6:12

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Il presidente che quattro anni fa emozionò il suo Paese e il mondo con slogan seducenti e una straordinaria narrativa, stavolta punta, invece, su una strategia totalmente diversa. Meno ispirata e più pragmatica: un messaggio concreto, ai limiti della brutalità  («Abbiamo salvato il salvabile, poteva andare molto peggio in questa crisi epocale, con me sopravviverà  il welfare sostenibile che, invece, i repubblicani vogliono smantellare») e una macchina elettorale mastodontica e capillare costruita nel quartier generale di Chicago dal «campaign manager» Jim Messina. Che l’ha soprannominata la «bestia perfetta»: una macchina da un miliardo di dollari capace di raggiungere, negli Stati cruciali per l’esito del voto, ogni singolo elettore col suo esercito di attivisti. Cittadini che vengono contattati dopo essere stati radiografati uno per uno — gusti, redditi, consumi, letture — con le tecniche digitali del «data mining»: quelle ricerche basate sui profili personali che sollevano tanti dubbi sotto il profilo della «privacy» quando a sfruttarle sono Facebook o Google.
Barack e Mitt, due personaggi umanamente e politicamente diversissimi. Ma la diversità  che conta di più, in queste elezioni presidenziali 2012, è quella della filosofia delle due campagne. Lasciate perdere i ragionamenti sui valori: non è lo scontro tra un cinico campione della matematica elettorale e un cavaliere degli ideali liberali e liberisti. Romney fa campagna all’ingrosso, mentre Obama vende politica al dettaglio, per dirla con Mike Allen, l’animatore del sito Politico.com. E si tratta di scelte in qualche modo obbligate.
Consapevoli che «change» e «hope» non avrebbero funzionato una seconda volta, che le promesse di Obama si sarebbero inevitabilmente scontrate con le disillusioni alimentate da una crisi estenuante, fin dal 2009 gli strateghi elettorali del presidente hanno puntato sulle tecniche digitali di «big data» e sulla costruzione di una struttura elettorale imponente: in Ohio, il principale campo di battaglia, la campagna del presidente ha 137 uffici, alcuni aperti da tre anni, Romney 37, tutti freschi di vernice.
Il candidato repubblicano, con le mani più libere sul piano dialettico non avendo avuto fin qui responsabilità  di governo, ha dovuto puntare tutto sul messaggio anche perché, ottenuta la nomination solo pochi mesi fa dopo elezioni primarie più tormentate e costose del previsto, non aveva il tempo né le risorse per costruire una macchina elettorale come quella messa in piedi negli anni dal team Obama.
Sono questi i fattori che risulteranno cruciali nella battaglia del 6 novembre, ma la costruzione di un presidente in questa estenuante campagna 2012, la più costosa della Storia, passa anche per molti altri ingredienti: dalla svolta impressa alla sfida dai dibattiti presidenziali — assai più efficaci delle convention nell’indirizzare gli elettori — al voto anticipato in molti Stati, all’impatto mediatico di Twitter, al peso dei numeri della disoccupazione. Con l’ultima rilevazione mensile, quella relativa al mercato del lavoro di ottobre, che arriverà  alla vigilia del voto (uragano permettendo).
Senza dimenticare i SuperPac, i gruppi di pressione finanziati da miliardari impegnati politicamente sui due fronti, che possono investire cifre illimitate senza doverne rispondere a nessuno se hanno l’accortezza di aiutare il loro candidato senza usare messaggi di pubblicità  diretta. Ma possono liberamente sostenere i valori della sua campagna e demonizzare l’avversario. Uno strumento autorizzato da una controversa sentenza della Corte Suprema al quale hanno fatto ricorso massicciamente soprattutto i conservatori. Fin qui è stato usato in particolare per mettere fuori gioco gli avversari di Romney durante la stagione delle primarie, mentre ora sembra meno efficace nel testa a testa Obama-Romney.
Qui la chiave è stata soprattutto quella dei dibattiti con la netta sconfitta di Obama nel primo confronto, quello di Denver. È cambiata lì la direzione di una campagna che sembrava seguire il copione di una riconferma di Obama senza troppe incognite. Dopo Denver il trend dei sondaggi si è capovolto. Il presidente, che parte da una base di Stati «sicuri» più vasta di quella di Romney, ha ancora i margini per recuperare ma, costretti a fronteggiare di nuovo venti contrari, i democratici stanno abbandonando la speranza di riconquistare il controllo del Congresso.
Recuperare un gap di 25 deputati alla Camera sembrava ancora un obiettivo possibile un mese fa, quando i commentatori conservatori, con Romney in affanno, parlavano di crisi di identità  e di necessità  di ricostruire dalle fondamenta un Partito repubblicano incapace di esprimere un leader vincente nemmeno con l’avversario schiacciato da una crisi economica epocale. Ora il gran ritorno del leader conservatore rende quasi certamente impossibile una riscossa parlamentare democratica.

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