I pm di Palermo: il Presidente non è un re Intercettate quattro telefonate

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ROMA — Il presidente della Repubblica non è un re, ingiudicabile qualunque cosa faccia, anche fuori dall’esercizio delle sue funzioni. E se pure lo fosse, le intercettazioni casuali e indirette in cui lo si sentisse parlare con altre persone sarebbero valutabili dal giudice, che solo dopo ne ordinerebbe la distruzione. Come accade in Spagna, per esempio. Ecco perché il conflitto sollevato dal capo dello Stato davanti alla Corte costituzionale contro la procura di Palermo che non s’è ancora liberata di quattro colloqui telefonici tra Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, è infondato. Non solo. Le affermazioni fatte dall’Avvocatura dello Stato per conto del Quirinale su un’immunità  presidenziale allargata a dismisura sono di «estrema gravità », e se fossero accolte si tradurrebbero in irrazionali violazioni della Costituzione.
È una risposta dai toni decisi e a tratti coloriti quella predisposta dai tre professori Alessandro Pace, Giovanni Serges e Mario Serio su mandato dei pubblici ministeri palermitani che hanno chiesto il processo per dodici imputati per la presunta trattativa tra lo Stato e la mafia (tra cui Mancino, accusato di falsa testimonianza). Per loro, le «occasionali, del tutto involontarie, non evitabili e non prevedibili» intercettazioni delle conversazioni di Napolitano non hanno rappresentato «alcuna lesione di prerogative presidenziali», come invece lamenta il capo dello Stato.
La memoria consegnata al palazzo della Consulta riassume i termini del conflitto in 32 pagine gonfie di riferimenti dottrinali e citazioni giurisprudenziali. E svela, per la prima volta, numero, date e durata delle intercettazioni in cui è incappato il capo dello Stato. Sono quattro su un totale di 9.295 colloqui di Nicola Mancino registrati tra novembre 2011 e maggio 2012. Le prime due sembrano riferibili agli scambi di auguri per Natale e Capodanno, il 24 dicembre (alle 9.40 del mattino, per tre minuti) e il 31 dicembre (alle 8.48, per sei minuti), registrate su due numeri fissi di Avellino, dove Mancino risiede quando non è a Roma. La terza è del 13 gennaio 2012, alle 12.52, è durata quattro minuti ed è avvenuta sul cellulare dell’ex ministro; la quarta è del 6 febbraio, cominciata alle 11.12 e finita cinque minuti dopo, anch’essa sul telefonino di Mancino. In totale 18 minuti.
Il contenuto delle conversazioni non è stato nemmeno riassunto sui brogliacci della polizia giudiziaria, e «su disposizione della Procura» non è stata fatta alcuna trascrizione. Ma un altro particolare emerge dalla memoria difensiva degli inquirenti palermitani, che nella loro impostazione dimostra come non ci fosse alcun intento di ascoltare indirettamente il presidente della Repubblica. Il 26 gennaio 2012, allo scadere dei decreti di intercettazione sulle utenze fisse di Avellino utilizzate da Mancino per parlare con Napolitano nelle prime occasioni, nonostante il parere contrario della polizia giudiziaria i pm non autorizzarono la prosecuzione degli ascolti. Poi, il 20 aprile, il centralino del Quirinale chiamò il cellulare di Mancino, ma rispose sua moglie: l’ex ministro non c’era, disse, potevano trovarlo al numero dello studio di Avellino. Se ciò è avvenuto, della conversazione non c’è traccia perché quel numero era stato «staccato» a fine gennaio. La data di quel contatto non registrato potrebbe avere un significato, perché è il giorno successivo alla riunione convocata dal procuratore generale della Cassazione con il superprocuratore antimafia per discutere dell’indagine sulla trattativa, dopo che il presidente della Repubblica aveva trasmesso al pg le formali lamentele di Mancino.
I costituzionalisti difensori dei pm palermitani ribadiscono che le registrazioni dei colloqui con Napolitano «non hanno mai formato oggetto di deposito che determinasse la possibilità  della conoscenza ad opera di qualsivoglia parte processuale». E non era possibile distruggerle perché non spetta ai pm dare quest’ordine: semmai a un giudice, dopo aver attivato i meccanismi previsti da una legge che invece al Quirinale non ritengono applicabili alle conversazioni del capo dello Stato, per via del divieto assoluto di intercettazione nei suoi confronti sancito dalla Costituzione. La questione è complessa, ma i costituzionalisti chiamati in soccorso dalla Procura sostengono che si tratta di una conclusione «giuridicamente infondata», con la quale si «pretende di sostenere che non solo nelle allocuzioni pubbliche anche nelle comunicazioni riservate, il presidente parlerebbe sempre e soltanto come capo dello Stato».
Nessuna violazione delle prerogative quirinalizie, inoltre, sarebbe avvenuta con la valutazione dell’irrilevanza dei colloqui con Mancino, giacché sarebbero state esaminate «solo le espressioni verbali dell’ex senatore, e non anche le risposte dell’interlocutore che la Procura non ha mai sottoposto a valutazione alcuna». In ogni caso, «un’immunità  assoluta potrebbe essere ipotizzata per il presidente della Repubblica solo se, contraddicendo i principi dello Stato democratico-costituzionale, gli si riconoscesse una totale irresponsabilità  giuridica anche per i reati extra-funzionali. Una simile irresponsabilità  finirebbe invece per coincidere con la qualifica di “inviolabile”, che caratterizza il sovrano nelle monarchie ancorché limitate». E una «garanzia dell’immunità  presidenziale così irrazionalmente dilatata» finirebbe per minare altri principi costituzionali, a cominciare dall’obbligatorietà  dell’azione penale.
Giovanni Bianconi


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