I nuovi padroni di Pechino

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PECHINO. Giorni fa sono tornato a visitare il mausoleo di Mao Zedong, al centro di piazza Tienanmen. Per transitare in pochi istanti davanti alla sua mummia, ho condiviso tre ore di coda con altre migliaia di cinesi. Molti mi hanno mostrato le loro reliquie: fotografie, vecchi esercizi di calligrafia e poesie del Grande Timoniere, fogli che inneggiavano a un ritorno della patria ai valori maoisti. Nessuna critica, dopo oltre sessant’anni. Tra la gente il mito di Mao si rafforza, assieme alla domanda di adottarlo come esempio per combattere le ingiustizie. Qualche compagno di pellegrinaggio ha timidamente convenuto che se Mao fosse ancora vivo, oggi non regnerebbe su Pechino, ma languirebbe in qualche ignoto carcere alla periferia dell’Impero.
Un funzionario locale mi ha ricordato che un vecchio ha rischiato di essere linciato dalla folla per aver insultato pubblicamente Mao. Nessun leader, al contrario, ha difeso il padre della repubblica: e per la prima volta, due giorni fa, un importante documento della leadership si è dimenticato di ricordarlo.
Ic inesi venerano la loro icona defunta, ma il loro successo economico si fonda sulla sua negazione e negli ultimi trent’anni le autorità  hanno mantenuto la stabilità  grazie all’impegno a demolire scientificamente il sistema-Mao. L’incertezza, le contraddizioni e il mistero che incombono sulla piazza davanti alla Città  Proibita, sospesa tra la nostalgia del socialismo e l’orgoglio per le conquiste del capitalismo, sono così le stesse che in queste ore scuotono il potere della seconda superpotenza globale. L’8 novembre, si aprirà  il 18° Congresso del partito, chiamato ad avviare il decennale passaggio del potere. Come nel mausoleo di Mao, le apparenze celano la realtà . La propaganda è impegnata ad imporre l’idea di una «transizione pacifica e armoniosa », sostenuta da una massa soddisfatta. I fatti rivelano invece un partito e un sistema-Cina in frantumi, divisi dalle scelte sul futuro e dalla valutazione del presente, tra la trincea del collettivismo e l’abbandono al liberismo. L’unico dato certo è che il congresso
sancirà , a partire da marzo, il pensionamento del presidente Hu Jintao, del premier Wen Jiabao e di sette su nove dei leader che dal 2002 hanno guidato la Cina. Tutto il resto è un enigma e gli stupefacenti scandali scoppiati a partire da febbraio contribuiscono ad accrescere la debolezza dei mercati finanziari e l’allarme della comunità  internazionale.
A meno di catastrofici colpi di scena, fino al 2022 l’attuale vicepresidente Xi Jinping succederà  a Hu Jintao e l’attuale vicepremier Li Keqiang prenderà  il posto di Wen Jiabao. In un sistema complesso come l’autoritarismo capitalista di Stato, questa è però solo la parte meno interessante della notizia. In queste ore l’esercito popolare di liberazione, il più grande del pianeta con oltre due milioni di effettivi, sta cambiando sette tra i dieci generali più potenti. Saranno questi nuovi militari a difendere il nascente potere, proiettando la rinata egemonia cinese nel Pacifico e verso Occidente. Due giorni dopo l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti, in carica per cinque anni, Pechino comunicherà  poi i nomi dei suoi leader per i prossimi dieci, ma pure di quelli già  investiti della successione fino al 2032. Dopo Xi Jinping e Li Keqiang verrà  qualcuno che tra pochi giorni vedremo ascendere nell’élite della tecnocrazia collegiale che domina la seconda economia del pianeta.
La lotta per il potere ventennale è la ragione dei sismi politici che in queste ore scuotono la Cina, facendo trattenere il fiato alla diplomazia straniera. Alla Casa Bianca il potere dura cinque anni e viene considerato prevedibile. Nel fortino a sud della Città  Proibita viene pianificato per un ventennio e la classe dirigente cinese si proietta nell’ignoto. A ciò si aggiunge la congiuntura straordinaria del 2012 in Asia. Dopo la Cina, entro poche settimane cambieranno leadership anche Corea del Sud e Giappone. La mappa dei grandi decisori della terra uscirà  rivoluzionata.
L’opinione pubblica dell’Occidente, distratta dalla spettacolarità  delle elezioni Usa, fatica a cogliere la portata del mutamento segreto in corso ad Oriente. Il destino di tutti, in questo secolo, sarà  determinato però dalle scelte che in questi giorni vengono opacamente adottate dal partito comunista cinese, decisive anche sul voto a Seul e a Tokyo. Ipotecare vent’anni, nella civiltà  del web, è un’impresa disumana. La Cina è reduce da una crescita economica senza precedenti e la sua ascesa è il fatto più importante dopo il crollo dell’Urss. Anche il decennio di Hu Jintao e di Wen Jiabao, è la storia di un successo commerciale. La propaganda di Pechino l’ha battezzato «decennio d’oro». La Cina ha superato i record di tutti in quasi tutto, ha salvato Usa e Ue dal crollo e continua a saldare i nostri debiti. Gli stessi cinesi concordano però su un punto: il modello-export è esaurito, la locomotiva frena, il sistema importa problemi e rivela che al «decennio d’oro» dell’economia è corrisposto il «decennio perduto» della politica. Hu Jintao, con il mantra del “weiwen”, il “mantenimento della stabilità ”, ne è il simbolo più grigio. Per conservare la dittatura del partito si è limitato ad applicare i piani economici varati da Jiang Zemin negli anni Novanta. Il prezzo del trionfo del business è stata la stagnazione politica. La Cina ha scalato le classifiche della ricchezza, ma è precipitata in quelle della libertà , della giustizia sociale e dei diritti umani.
La sproporzione tra peso commerciale e dimensione politica è il nodo drammatico che giunge al pettine del Congresso alle porte.
Hu Jintao e Wen Jiabao escono di scena esibendo le Olimpiadi di Pechino, l’Expo di Shanghai e il Nobel per la letteratura di Mo Yan, icone del nuovo soft-power economico-culturale dell’impero che guida il pianeta post-americano. Se ne vanno ricordando però anche i volti del Nobel in carcere Liu Xiaobo, del Dalai Lama in
esilio da un Tibet nuovamente in fiamme e di Bo Xilai, il leader della sinistra epurato per evitare «di condannare la Cina ad una nuova rivoluzione culturale». I media di Stato sono dunque costretti ad ammettere che la transizione affida ai nuovi leader un mandato epocale: «Promuovere subito riforme strutturali e aperture sostanziali in ogni campo». Questioni essenziali, confidano accademici illuminati, rischiano di «far venire l’infarto ad un gigante economico rimasto un nano politico »: la corruzione del potere, le differenze tra ricchi e poveri, i rancori etnici, la repressione del dissenso, la distruzione dell’ambiente, l’avvelenamento del cibo. La domanda che si aggira sopra piazza Tienanmen è se Xi Jinping e Li Keqiang, i nuovi “principi rossi” cresciuti non con Mao Zedong, ma Deng Xiaoping, sono gli uomini giusti per accendere il motore delle riforme politiche e dello Stato di diritto in una Cina che economicamente non può resistere altri vent’anni costruendo solo fabbriche e grattacieli. A Pechino simili dilemmi fanno sorridere. Qui ci si limita a registrare gli ultimi accadimenti: lo scoppio dello scandalo Bo Xilai, con la sconfitta del neomaoismo che aveva messo sotto accusa «un potere senza più ideali », il boom delle spese per sicurezza e forze armate, la temporanea scomparsa di Xi Jinping, l’isolamento di Tibet e Xinijang, la ripresa delle dispute territoriali nel Pacifico, la nuova repressione contro dissidenti e popolo del web.
Questa tesa e ritardata vigilia congressuale, segnata dal tentativo della sinistra di salvare l’immunità  di Bo Xilai, restituisce così l’immagine di una Cina più attenta a conciliare gli interessi di nuovi ricchi e crescente ceto medio, piuttosto che decisa a varare le riforme che possono costruire una moderna nazione sviluppata, fondata su una concezione universale della democrazia di mercato. Il partito resta dominato dal terrore atavico dell’instabilità  e delle rivoluzioni che travolgono le dinastie: «Difende l’imperatore – ha scritto l’archistar Ai Weiwei – ma non semina le risaie». Per questo la sfida di Xi Jinping e di Li Keqiang, dall’8 novembre, è trovare equilibri collegiali di partito più forti delle ossessioni dell’esercito. «Ottenuto il benessere – diceva uno dei compagni in fila per salutare la mummia di Mao – dobbiamo liberarci dalla sindrome della rivoluzione permanente e avviare un’evoluzione costante». Dalla repressione al consenso. Ha detto così, ma è sembrato solo. Per la maggioranza dei cinesi «diventare ricchi è meglio che sentirsi liberi». E il partito-Stato, anche dopo la tragedia del 1989, a dispetto delle apparenze resta piuttosto attento all’aria che tira attorno al mausoleo in piazza Tienanmen.


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