Gli attori oscuri dietro l’apparente suicidio di Assad
Perché allargare la guerra civile siriana alla Turchia e quindi alla Nato può essere un obbiettivo di chi vuole un intervento esterno contro Damasco, ma non può in alcun modo rientrare nelle convenienze tattiche o strategiche del regime di Bashar al Assad che di tale intervento sarebbe la vittima designata. E allora, chi e perché spara dalla Siria contro la Turchia?
In via del tutto ufficiosa gli stessi analisti di Ankara fanno due diverse ipotesi. La prima è che i colpi di mortaio siano volontariamente indirizzati contro le zone di frontiera turche dai comandanti dei reparti regolari che combattono i ribelli appena al di là del confine. E questo per un motivo: oltre ad ospitare quasi centomila profughi siriani, i turchi danno appoggio e protezione sul proprio territorio anche a piccoli reparti dell’Esercito libero siriano, il cui quartier generale, fino a dieci giorni fa, si trovava appunto in Turchia. Dunque i soldati siriani, magari impegnati contro avversari che poi si dileguano oltre confine, usano le armi che hanno senza porsi troppi interrogativi. Ricostruzione credibile, che tuttavia comporterebbe un risvolto devastante per Assad laddove risulterebbe che i suoi ufficiali sul terreno non obbediscono agli ordini o alle «inchieste» di Damasco.
La seconda ipotesi è quella della provocazione volta ad allargare il conflitto, chiunque (per esempio infiltrati dell’Esercito libero, o jihadisti) ne sia l’autore. Le autorità turche, che temono di essere strumentalizzate, hanno risposto ai colpi di mortaio provenienti dalla Siria con esemplare equilibrio. Si sono fatte autorizzare dal Parlamento a reagire secondo le circostanze. Hanno preso atto della forte contrarietà popolare a una guerra con Damasco, e anche per questo hanno ripetutamente assicurato, ancora ieri, che Ankara non vuole uno scontro con la Siria. Hanno bussato sì alla porta della Nato ma invocando il consultivo articolo 4 (come era già accaduto in occasione dell’abbattimento di un loro cacciabombardiere) anziché l’obbligo di assistenza militare da parte degli alleati contenuto nell’articolo 5 del Trattato atlantico. Hanno risposto ai colpi siriani in modo più che altro dimostrativo.
Ma se i proiettili continueranno a volare sul confine turco-siriano, questa situazione non potrà durare a lungo. E le due ipotesi, quella degli ufficiali fuori controllo e l’altra della provocazione incendiaria, alla fine porteranno allo stesso risultato.
Cosa potrebbe fare la Turchia, infatti, se i colpi di mortaio provenienti dalla Siria continuassero e si moltiplicassero? Come potrebbe reagire Erdogan, e come reagirebbe la sua opinione pubblica, se un ordigno siriano facesse per esempio strage in una scuola, o in un ospedale? Non basterebbero più le rappresaglie soft a suon di colpi di cannone non si sa quanto mirati. E forse non è un caso che proprio ieri carri armati e sistemi di missili anti-aerei siano stati portati alla chetichella in prossimità del confine con la Siria, mentre le basi aeree sono in allarme permanente.
Che si tratti delle ricadute più o meno involontarie di una atroce guerra civile oppure del calcolo di provocatori professionisti (che magari gradirebbero anche mettere con le spalle al muro un Barack Obama dilaniato tra le elezioni in arrivo e l’impossibilità di restare con le mani in mano), i colpi di mortaio siriani rischiano di allargare in modo irreversibile un conflitto che da sempre è parso assai difficile da circoscrivere. E la comunità internazionale, priva di una intesa negoziata che le consenta di intervenire unitariamente (a poco servono gli sforzi di catechizzare gli altri, quando questi sono i russi) potrebbe trovarsi ancora una volta a fare da spettatore.
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