Fact checking e elezioni USA: chi è il bugiardo?

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Entrambi i partiti si accusano a vicenda di utilizzare costantemente fatti e cifre a proprio uso. Dati quali, ad esempio, il tasso di disoccupazione o il livello del debito pubblico hanno sempre avuto un ruolo importante nell’influenzare l’orientamento degli elettori statunitensi; soprattutto gli indecisi, il cui peso finale, si sa, è determinante. Se c’è un merito dei dibattiti presidenziali e, più in generale, delle campagne elettorali secondo il modello americano è proprio quello di portare alla ribalta l’attività  dei fact checkers, cioè di quelle persone incaricate di controllare l’accuratezza delle affermazioni e delle cifre citate dai politici nel corso dei dibattiti e dei discorsi in pubblico.

Anche durante questa campagna elettorale dati, cifre e fatti hanno ricoperto un ruolo centrale. La maggiore polemica è stata quella innescata dall’articolo di Niall Ferguson pubblicato su Newsweek e interamente costruito su una serie di dati falsi o, quantomeno, molto controversi. Il partito Democratico, in particolare, accusa i rivali Repubblicani di utilizzare dati falsi per depistare gli elettori. Queste polemiche riguardano ogni tipo di affermazioni, da quelle di interesse pubblico a quelle, per così dire, legate alla sfera privata. Esemplare in questo secondo ambito il caso del candidato vice-presidente repubblicano Paul Ryan, che nel corso di un’intervista dichiarò di aver corso una maratona in meno di tre ore. In realtà  ne aveva impiegate quattro e oltre, come fu appurato dai fact checkers. La credibilità  di Paul Ryan ne uscì piuttosto malconcia. Non è un caso che alla convention democratica di settembre uno dei passaggi di maggior successo del discorso di Bill Clinton è stato proprio quello relativo all’incapacità  dei Repubblicani di farsi dettare l’agenda dai fact checkers.

Negli Stati Uniti il lavoro di fact checking è un’attività  molto più diffusa di quanto non lo sia in Italia, tanto che quasi tutti i principali organi di informazioni americani, da FoxNews al Time, hanno ormai un settore fact checking. Quello del Washington Post, uno dei più famosi e organizzati, assegna perfino i voti ai politici sulla base dell’accuratezza delle rispettive affermazioni, valutandoli da uno a quattro “Pinocchios”. Alcuni dei principali siti di fact checking, come ad esempio factcheck.org e politifact.com, sono gestiti da NGO e associazioni di cittadini indipendenti. Il lavoro di factchecking viene spesso compiuto in tempi veloci: durante l’ultimo dibattito presidenziale molti media offrivano un fact checking delle affermazioni in tempo quasi reale attraverso twitter.

È quasi superfluo sottolineare che questo tipo di attività  sarebbe straordinariamente utile se applicata alla politica italiana, i cui protagonisti sono abituati a snocciolare con disinvoltura dati e storie che spesso non hanno alcun riscontro con la realtà . Come scrive Luca De Biase, uno dei pochi che si stanno impegnano a portare avanti questa causa, “Questo genere di operazioni si fonda sulla convinzione che la maggior parte dell’effetto si ottiene con un titolo o un tweet e che sono ben poche le persone che vanno davvero a controllare se quanto è stato detto è verificabile”. Pratiche quali la manipolazione sistematica delle cifre a proprio uso e costume e la costante negazione dell’evidenza erano, fino agli anni Novanta, pratiche limitate, usate con relativa prudenza e comunque solo all’occorrenza. Al contrario, il modello promosso dai partiti che vinsero le elezioni nel 1994 stravolse queste dinamiche: da allora, molti politici si accorse che realtà  è effettivamente modificabile, a patto di mostrarsi convinti e sicuri nelle proprie argomentazioni, a prescindere dai fatti. Questo modello di comunicazione politica ha trasformato abitudini un tempo relativamente marginali in prassi consolidate e utilizzate con spudorata sfacciataggine da moltissimi attori politici e non solo. Anche nel campo del giornalismo, infatti, negli ultimi anni ha preso campo l’abitudine a pubblicare scoop e inchieste prima ancora di svolgere ogni tipo di controllo sull’affidabilità  delle fonti e la veridicità  dei fatti stessi. Che, infatti, si sono talvolta rivelati essere completamente falsi. In questo senso, ha senz’altro una buona parte di ragione Luca De Biase quando dce che “una delle grandi riforme della politica della quale abbiamo bisogno è che almeno un poco del discorso politico sia basato su fatti documentati, ottenuti con un metodo condiviso”. De Biase ha recentemente provato a proporre un progetto di fact sharing sociale basato sul contributo di tutti i cittadini o, se non altro, dei cittadini digitalizzati. Civiclinks, questa originale iniziativa, si è presentata come una grossa novità , ma non ha ancora riscontrato l’interesse che alcuni speravano.

Il problema, in effetti, è che un controllo oggettivo dei fatti politici rappresenta un compito piuttosto intricato. Se, infatti, il tempo in cui si è corsa una maratona rappresenta un dato incontestabile, molti indicatori economici e sociali sono ampiamente interpretabili. Torniamo per un attimo all’articolo di Ferguson: i dati in esso contenuti non erano falsi in sé (non tutti, per lo meno), ma erano interpretati in modo tale da risultare fuorvianti. Molti politici italiani sono avvezzi a questi trucchi. Fino a pochi anni fa Silvio Berlusconi si vantava del fatto che sotto il suo governo il tasso di disoccupazione in molte regioni del sud Italia era calato. Questa affermazione era veritiera. E tuttavia il tasso di disoccupazione era in ribasso per via della crescita del numero di giovani talmente rassegnati da essere costretti a emigrare altrove, rendendo cosi più favorevole il rapporto tra il numero di persone in cerca di lavoro e il totale della popolazione, ovvero, per l’appunto, il tasso di disoccupazione. Insomma: il lavoro dei fact checker è complesso e richiede un notevole dispendio di tempo. Non si tratta, in altre parole, di un’attività  che si può facilmente improvvisare: sono necessarie una preparazione e una professionalità  verso le quali, per adesso, in Italia non si presta ancora una sufficiente attenzione.

Lorenzo Piccoli


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