Ermanno Rea Viaggio in Italia

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Ci riporta allo stato d’animo di un intellettuale comunista, che si trovò, a meno di trent’anni, impigliato in quel frangente di delusione e di protesta che dilaniò perlungotempolevisceredelpartitoall’indomani dell’invasione sovietica dell’Ungheria, nel 1956. Ed ecco che questo suo caso biografico viene ora spiegato dallo scrittore nel volume 1960. Io reporter, in uscita il 10 ottobre da Feltrinelli.
Glienehaoffertol’occasionel’averritrovato un gruppo di foto da lui scattate in ogni parte del mondo. Quella di preparare servizi fotografici è infatti l’attività  che egli prende a esercitare dopo anni di lavoro in redazione. Ma non darebbe l’idea del volume soltanto vedervi, in appendice, una raccolta di reperti in quel “bianco e nero” che, già  di per sé, suscita nostalgia. Il vero senso dell’opera risiede nel fatto che l’autore vi ha versato una dose di quella sensibilità  sussultoria che è il segno della sua narrativa più felice, da Mistero napoletano (1995) in poi. Rea ricostruisce ancora una volta una storia del nostro dopoguerra: gli anni della crisi ideale da lui vissutanellaredazionepartenopeadell’Unità . Nel raccontare questo frangente, il suo talento di “ritrattista” offre un nutrito gruppo di esemplari umani: dagli amici o colleghi Renzo Lapiccirella, Nicola Cattedra, Franco Grassi, Fausto De Luca, Ugo Gregoretti ai più anziani e autorevoli Paolo Ricci, Renato Caccioppoli. Alcune, insomma, di quelle sagome che nutrono la memoria di ogni intellettuale che a Napoli stesse preparandosi, in quegli anni, all’esistenza. A Roma, l’autore lavorerà  a Vie Nuove,
sotto l’imperio di una capziosa despota, la direttrice Maria Antonietta Macciocchi. E intanto conoscerà  Pannunzio e Flaiano: ecco, ai suoi occhi, «i padri fondatori della fotografia giornalistica italiana». Il passaggio dalla macchina Olivetti alla Rolleiflex e alla Leica — che della foto sono regine — è già  in agguato. È come se la nuova pelle che decide di assumere, quella del fotoreporter, lo rigenerasse. Ma, soprattutto, la periodica fuga dall’Italia rappresenta per lui un «taglio di cordoni ombelicali
». Gli fa assaporare un «soffio di sregolatezza » dopo anni di vita vissuta nei ranghi del partito e nei suoi giornali. Il «divorzio dalla parola scritta» coincide con la scoperta di civiltà  e modelli sociali imprevisti. Dopo essersi agganciata alle spalle una «macchina», non è più, ormai, un militante desolato per i tradimenti della storia, ma un libero «uccello migratore». E così questo suo frammento autobiografico diventa un racconto di viaggi.
Prima tappa, Berlino, l’hotel Allemania, dove “scende”, è un covo di guardoni — così ama definire i suoi colleghi fotografi nel cuore di un’Europa spaccata. Lì, accanto alla cortina di ferro, si sente battere il cuore d’un continente che esce da una traversia storica. Quella che poi si chiamerà  «fotografia stradale» è nata proprio qui, nella Germania e negli altri paesi dell’Est, dove si girava con la «macchina fotografica seminascosta nella manica della giacca ma sollecita a balzare fuori al primo stimolo».
Dopo la Germania, Grecia e Turchia, ma soprattutto Spagna, un paese — scrive — che «mi stregò». A Siviglia quasi perse la testa fidanzandosi «con una ragazza che mi insegnò a cucinare la paella ballando in maniera stupenda». È certamente improprio paragonare tali sensazioni a quelle che si provano oggi, quando in quei paesi si sbarca con l’aereo, magari tra frotte di liceali in gita. A quei tempi, invece, tutto dava il senso di un’iniziazione.
Ancora: la Lubecca di Thomas Mann. Poi l’Irlanda. Di nuovo la Germania, Amburgo, dove trova Annette, una ragazza che sarà  â€” per un tempo non lungo — sua moglie, e gli darà  un figlio. AKatmandu,inNepal,s’imbattein Alberto Moravia e Dacia Maraini che sono lì in vacanza «di lavoro». L’autore vorrebbe ora ricordare l’episodio all’autrice di
Marianna Ucrìa:ero io quel signore con cui avevi scambiato qualche parola. Ammesso che abbia un senso riportare alla memoria d’una tua amica il fatto di «averla incontrata anni prima in cima al mondo».
Non sono che alcune tappe di un pellegrinaggio che l’autore commemora con un sorriso nascosto tra le pagine. «Ho girato un bel po’ di mondo… ». Finché — parola sua — il mestiere di fotografo gli «viene a noia»: non può durare. Lo aggredisce una crisi di malinconia. Una notte, a Dublino, mentre passeggia lungo la sponda del fiume Liffey, d’improvviso gli capita di mettersi a «cantare a squarciagola» Qualche passante pensa che sia ubriaco. «Però non ero ubriaco, cantavo per farmi coraggio», è la testimonianza dello scrittore. Voleva tornare. Così, come l’ultima pagina d’un romanzo d’avventura, si conclude questo lungo viaggio con la Leica a tracolla.


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