È la privatizzazione della politica

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Era un altro mondo quello che negli anni ’60 guidava i deputati del Pci a palazzo dei Normanni La travolgente degenerazione delle istituzioni rappresentative italiane, debitamente correlata con la mondializzazione neoliberista, ci induce a dubitare che rimedio idoneo possa trovarsi nel ritorno al passato: ai (relativi) vincoli derivanti dalla nostra Costituzione, pur plausibilmente invocati da Gianni Ferrara, a una pubblica agorà  materializzata (non virtuale e mediatica), a una legge elettorale proporzionale e alla novecentesca funzione programmatica (per proposte alternative) dei partiti in quanto “democrazia organizzata”. Alberto Burgio, sul manifesto, ha spiegato che la corruzione dei politici è un presupposto necessario perché alle democrazie parlamentari siano sottratti i poteri decisionali effettivi, specialmente per le politiche economiche e sociali. In parole povere: gli incentivi a lanciarsi nelle carriere politiche come mezzo per far prosperare gli affari privati dei rappresentanti del popolo sono la contropartita concessa a questi ultimi perché le assemblee rappresentative cedano i loro poteri ai poteri forti della finanza internazionale e dei suoi tecnocrati. Il proliferare dei politici corrotti dev’essere pertanto più propriamente denominato privatizzazione della politica. Alla politica come affare, o malaffare, privato prelude l’assenza di ogni confronto programmatico insieme con la conseguente personalizzazione delle scelte elettorali, con il mal motivato premio maggioritario e con la simulata alternanza tra consorti al governo o con la connivenza fraudolenta nelle grandi coalizioni.
Il contesto europeo, anzi mondiale, ci è ben noto. Lo si può sintetizzare con un Zygmunt Bauman intervistato per il Messaggero dell’11 settembre: «Gli stati-nazione avevano il potere di decidere e una sovranità  territoriale. Ma questo meccanismo è stato completamente travolto dalla globalizzazione. Perché la globalizzazione ha globalizzato il vero potere scavalcando la politica. I governi non hanno più un potere o un controllo dei loro paesi perché il potere è ben al di là  dei territori. Sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità , della mafia, del terrorismo… Ogni singolo potere si fa beffe facilmente delle regole e del diritto locali. E anche dei governi».
Dei governi nazionali e di quelli locali. Se criminali sono i poteri finanziari supremi, anche i dimidiati poteri locali fanno la loro parte. Non vi alberga un marcio di superficie che si possa rimuovere lasciando intatta la carne sana. Tutta la carne è infetta. Dopo il Laziogate, in cinque o sei assemblee regionali italiane presidenti, assessori o consiglieri sono sotto processo o subiscono accertamenti ad opera della magistratura o della guardia di finanza. La procura di Palermo ha disposto un’inchiesta (per ora, si tratterebbe di «un’indagine conoscitiva») sull’utilizzo dei fondi da parte dell’assemblea regionale siciliana, bloccandone nel frattempo tutte le spese ordinarie e straordinarie con la conseguente sospensione degli stipendi ai funzionari e agli impiegati, di tutte le indennità  spettanti ai deputati e di tutti gli assegni vitalizi degli ex deputati. Le cronache riferiscono che nel 2012 quell’assemblea regionale avrebbe regalato ai gruppi parlamentari 12,65 milioni, dei quali avrebbe beneficiato il Pd per circa 2,5 milioni di euro, per circa 1,9 milioni il Pdl, per 700 mila euro ciascuno Fli, Grande Sud e Udc. La Stampa del 25 settembre dà  la parola ai partiti esclusi: «Musumeci, Miccichè e Crocetta hanno perso l’occasione per fare chiarezza su quei bilanci – dice l’ex candidato governatore Claudio Fava -, quella chiarezza che adesso giustamente pretendono i magistrati». Nello stesso giorno Il Fatto quotidiano informa che quel denaro sarebbe stato speso, oltre che per le normali esigenze dei gruppi parlamentari, anche per portaborse, consulenti, automobili, feste elettorali e perfino per il rimborso del caffè ai deputati.
Chi scrive è stato deputato regionale siciliano nei primi anni Sessanta e ha assunto anche funzioni di presidenza nel gruppo comunista. Quel gruppo, a memoria di chi scrive, disponeva di esigui locali per le proprie riunioni a Palazzo dei Normanni, ma non riceveva neppure una lira dai fonti dell’assemblea, mentre ogni deputato del Pci versava al suo partito la metà  dei propri introiti parlamentari. Ma, ripeto, tornare indietro non si può. Non sarebbe un rimedio efficace all’astensionismo o al clamore degli anti-politici e degli anti-partiti.
Sono uno dei sintomi ma non sono la soluzione «dei grilli il verso che perpetuo trema» e (con tutto il rispetto che merita) l’affaccendarsi delle api nel costruire alveari o «fabbriche» per distillare mielati discorsi. Anche il grillismo e (con le doverose distinzioni) l’apicultura soggiacciono al personalismo come malattia, infantile e senile insieme, della politica privatizzata. Ci occorre invece una ben più spietata rivoluzione culturale. Che scaturisca dalla miseria del lavoro, dall’insieme dei movimenti e da coloro che, per provenienza culturale, ricordano le parole d’ordine sulla «fine dello stato» o anche sullo stato che «si abbatte e non si cambia». Lo si abbatta, ma con una rivoluzione pacifica e con idee chiare.
Non basta infatti volere riappropriarsi di tutti i beni comuni, fra i quali debbono essere annoverati anche una istruzione senza recinti meritocratici o censitari, la sanità  universale e l’amicizia senza frontiere. Dobbiamo anche sapere per quali comunità  di persone i beni dovranno essere comuni: vi saranno beni condivisi per comunità  di formazione e coesione volontaria, altri per quelle territorialmente predefinite e altri ancora per l’intera comunità  umana. In codesto allargarsi degli orizzonti comunitari, vi sono spazi più ampi nei quali una qualche rappresentanza è inevitabile. Dovrà  essere una rappresentanza permeabile e permutabile (o revocabile), non più una casta privilegiata. Si rilegga, pur senza feticismi, il giudizio di Marx sulla Comune di Parigi 1871.


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