by Sergio Segio | 18 Ottobre 2012 8:00
Il registro emotivo è una chiave di lettura fondamentale per capire il formarsi dello spirito unitario Da tempo la riflessione sul passato, non meno che la storiografia in quanto disciplina, si sono emancipate dai vincoli storicisti e da quelli positivisti che identificavano nella storia politica, e quindi in quella dei grandi poteri, il campo pressoché esclusivo del loro intervento. Le stagioni del lavoro nel laboratorio dello storico si sono succedute per arrivare ai giorni nostri, laddove il ricorso ad ambiti interdisciplinari ampi e variegati, partendo dall’antropologia, dalla letteratura e dalla sociologia, ha trovato infine pieno accoglimento.
L’ibridazione è quindi un dato oramai acquisito. La scuola anglosassone ha in più di un’occasione aperto dei varchi nei quali, poi, si sono inserite intere generazioni di studiosi. In Francia i canovacci della memoria collettiva, della comunicazione popolare, del sapere dal basso che hanno trovato in Marc Bloch uno dei loro iniziatori, hanno raggiunto nell’elaborazione di studiosi come Henry Rousso e Annette Wieviorka, per citarne alcuni tra i tanti, sintesi di rilievo.
In Italia, pur avendo tardato in questo tipo di elaborazione critica, scontando rigidità dottrinarie ma anche non poche resistenze corporative, con gli anni Ottanta ci si è tuttavia incamminati pienamente verso tale esito. Un ruolo fondamentale è stato quello svolto dalla storia di genere e dalla storia orale. Due maestri, in tal senso, rimangono Luisa Passerini e Alessandro Portelli. I nessi che si istituiscono tra la dimensione individuale, il micro, e quella collettiva, il macro, sono peraltro a tutt’oggi elementi fondamentali per comprendere quali siano i fattori che incidono nel fare sì che si crei ciò che nella percezione dei posteri verrà poi celebrato come l’insieme dei fattori del mutamento.
Cosa deve entrare in circuito, e attraverso quali canali, affinché si determini in una comunità un cambiamento che sarà poi ricordato come fatto storico? In tutto rimane irrisolto il problema di capire quale sia il vero statuto della narrazione storica, fermo restando che la ricostruzione del passato è un esercizio che serve soprattutto a dare un significato al presente. Si tratta per molti aspetti di un’attività che si svolge a ridosso del campo del politico, offrendo alla collettività strumenti per alimentare i legami della coesione sociale.
Non è quindi un caso se la storia soffra le tensioni del tempo corrente: la domanda di memoria che si è registrata in questi ultimi vent’anni ha raccolto e registrato le crescenti difficoltà che lo stare insieme, all’interno di società come la nostra, in forte affaticamento, non solo economico, stanno manifestando.
Le celebrazioni, invero assai tiepide e timide, per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, ne sono state un significativo sismografo. Si inserisce nella ricca riflessione sui processi legati all’unificazione, che invece non sono mancati, il recente volume a cura di Penelope Morris, Francesco Ricatti, Mark Seymour, Politica ed emozioni nella storia d’Italia dal 1848 ad oggi (Viella 2012, pp. 310, euro 30), che raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Londra nel 2009. Va subito detto che si tratta di un repertorio di una quindicina di saggi, tra di loro anche molto eterogenei, che si esercitano su rilevanti aspetti dell’intreccio tra mobilitazione politica, partecipazione popolare, identificazione collettiva, costruzione del consenso e trasformazione dei poteri in più di un secolo e mezzo di storia patria.
L’implicito di tutti gli interventi ruota intorno al problema dell’identità nazionale, al suo farsi (e disfarsi) nel corso del tempo, posti i grandi differenziali che hanno accompagnato culturalmente e socialmente il divenire comune del nostro paese. Puntualmente i curatori hanno identificato nel 1848 il punto d’avvio di una storia unitaria, trattandosi dell’anno che segnava l’avvio di una nuova fase rivoluzionaria continentale, che si sarebbe trascinata, con continuità e discontinuità , fino al 1917. L’Italia, malgrado tutto, ne fu enormemente influenzata.
Il volume, lo si intende dallo stesso titolo, va tuttavia cronologicamente oltre. Così come cerca di affrontare il nesso tra dimensione soggettiva (gli individui) e contesto oggettivo (la comunità ) sul versante di quel complesso oggetto di condivisione che è l’emozione. Già Alberto Maria Banti l’aveva recuperata per farne una delle chiavi di lettura fondamentali nella costituzione sia dello spirito unitario che delle sue innumerevoli divaricazioni, dall’Unità ad oggi, soprattutto nella difficile dialettica tra élites e masse.
Più in generale la questione della formazione, della socializzazione e dell’uso pubblico delle emozioni rimanda alla natura dei linguaggi politici che sono stati utilizzati come vettori di mobilitazione collettiva dall’età rivoluzionaria liberale in poi. Il primo a comprenderlo fu Epicuro, quando affermava che «la natura umana non va forzata, va persuasa». La stagione populista, così come quella tecnocratica dei «professori», ci ricordano, se mai ancora ci occorresse, della imprescindibilità del registro emotivo nei percorsi di costruzione del consenso (non meno che del dissenso). La politica ha un carattere emotivo, ma le emozioni di gruppo hanno sempre un riversamento politico.
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