Dal buonismo al «ma anche» le cento invenzioni del Giovane Walter

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E’ uno sfondo sentimentale, proprio nel senso veltroniano, perché sentimentalmente si confondono il momento politico, quindi la Fgci con la percezione di essere giovani e di avere tutta la vita davanti e con quel Pier Paolo Pasolini che non avrebbe mai abbandonato l’universo interiore di Veltroni. Anche oggi quel delitto irrisolto è per lui un chiodo fisso.
Uno, cento Veltroni. Sindaco di Roma, vicepresidente del Consiglio e ministro dei Beni culturali, segretario sia dei Ds che del Pd, scrittore di bestseller, cinefilo, viaggiatore. Nei primi anni è per tutti «il giovane Veltroni», soprattutto quando nel 1987 approda in Parlamento e nel 1988 (a 33 anni appena) entra nel Comitato Centrale del Pci. La prima vera scommessa arriva nel 1992 con la direzione de «L’Unità ». Forse anche qui c’è un po’ di Pasolini, almeno quello che detestava gli applausi ai luoghi comuni preferendo «l’atrocità  del dubbio». Veltroni smonta il quotidiano-monumento, allega videocassette e figurine Panini. I vecchi comunisti e la destra lo sommergono di critiche, persino di lazzi, ma le copie registrano in due anni un +35.000. Nasce in qualche modo lì il «veltronismo» (per i detrattori un cinico mix di facili effetti spettacolari, per i sostenitori un metodo per veicolare cultura a tutti) che poi trova la sua apoteosi nell’incarico da ministro dei Beni Culturali del primo governo Prodi tra il 1996 e il 1998. Finanzia il dicastero con le estrazioni del lotto, riesce a far riaprire la galleria Borghese a Roma e la Venaria Reale in Piemonte, inventa la Notte Bianca. Ma è lo stesso periodo in cui lo accusano di «veltronizzare» la Rai affidata al suo vecchio amico Enzo Siciliano, di seguire con silenziosa cura nomine e indirizzi della tv pubblica.
C’è poi la segreteria dei Ds dal 1998 al 2001. Ma l’altro vero capitolo della Veltroneide è la conquista del Campidoglio nel 2011 col 53% dei voti: «Ho fatto il percorso contrario di Chirac». Il passo politico è indubbiamente da ex ministro. Riesce ad aprire nei tempi giusti l’Auditorium di Renzo Piano che rischiava il limbo, approva un piano regolatore fermo da quarant’anni, porta i ragazzi romani nei campi di concentramento nazisti per capire l’Olocausto e non dimenticarlo, poi in Africa e ne rimane affascinato. E già  nel 2002 comincia a immaginare di «andare in Africa e svolgere un ruolo sociale quando sarà  finito il mio impegno politico». Lo ripete più volte. Diventa quasi uno slogan, usatissimo dagli avversari che lo invitano a partire subito (ma in Africa non si trasferirà  mai) quanto il famoso «buonismo» e il ritornello del «ma anche» (cavallo di battaglia di Corrado Guzzanti, suo insuperato imitatore): frutto di un progetto personale che tenta di mettere insieme esperienze e realtà  diverse e di comprendere le ragioni di chi ti è rivale.
L’uomo sa bene quanto pesi l’immagine anche nel senso più stretto del termine, lo conferma rivolgendosi agli elettori romani dal letto dell’Ospedale Gemelli dove è stato ricoverato per una colica renale a pochi giorni dalle urne: camice bianco, il cuscino, aria stanca ma idee chiare. Lascia la Capitale nemmeno due anni dopo la trionfale riconferma del secondo mandato il 29 maggio 2006 con il 61.45% dei voti, l’addio è del febbraio 2008 dopo l’elezione a segretario del Pd del giugno 2007 al Lingotto di Torino. Gli rimprovereranno non solo le sconfitte alle elezioni nazionali del 13 aprile 2008, col Pd che corre da solo, ma anche di aver consegnato il Campidoglio a Gianni Alemanno. L’ultimo Veltroni è il frutto delle dimissioni da segretario nel febbraio 2009 dopo la pesantissima sconfitta alle elezioni regionali in Sardegna.
Bisognerebbe dedicare molto più spazio al romanziere, ormai una firma da sicuro bestseller che produce ottimi materiali per film (a gennaio uscirà  il film di Susanna Nicchiarelli tratto da «La scoperta dell’alba» ma nel 2007 c’era già  stato il film «Piano, solo» tratto dalla biografia-romanzo dedicata da Veltroni a Luca Flores). Su «L’Unità » del 2 settembre un entusiasta Massimo D’Alema ha elogiato l’ultimo romanzo veltroniano, «L’isola e le rose», sostenendo che «vi traspare un amore profondo verso il nostro Paese ed una fiducia nelle sue potenzialità ». Detto da chi, sul buonismo, certamente mai fu clemente.


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