by Sergio Segio | 4 Ottobre 2012 7:35
Urla contro Ahmadi Nejad, ora in difficoltà per i tafferugli di ieri: per il crollo del rial ha accusato le sanzioni occidentali e la speculazione interna Il Gran bazar di Tehran chiuso per protesta, gli uffici dei cambiavaluta pure chiusi, gas lacrimogeni sulla folla che urla slogan contro il governo. Questa era la scena ieri mattina nella capitale iraniana: e al centro della crisi questa volta è il rial, la moneta nazionale, che ha perso il 40% del suo valore solo nell’ultima settimana.
Secondo le testimonianze riportate da varie agenzie di stampa i tafferugli si sono estesi dal bazar fino a piazza Imam Khomeini e viale Ferdousi, il cuore della città commerciale e politica. Non è chiaro però quante persone abbiano partecipato alla protesta. Il Gran bazar resta un luogo simbolo del consenso allla Repubblica islamica, anche se gli affari ormai avvengono altrove: e qui ieri i commercianti hanno abbassato le saracinesche gridando «Allahu akbar». Dicono che con il valore della moneta così incerto il commercio è impossibile, e accusano il presidente Mahmoud Ahmadi Nejad di cattiva gestione economica. Urlavano «Mahmoud traditore, hai rovinato il paese».
La crisi del rial è il sintomo di tutti i problemi dell’Iran sta affrontando, dalle sanzioni sempre più draconiane imposte dalle nazioni occidentali, alla lotta politica interna. Martedì il cambio sul mercato libero a Tehran era 37.500 rial per un dollaro, contro 34.200 alla chiusura di lunedì, e 24.600 del lunedì precedente (la banca centrale mantiene il cambio ufficiale di 12.260 rial per dollaro, fissato dal governo nel gennaio scorso). È un crollo drammatico: un anno fa servivano circa 13mila rial per un dollaro, nell’ottobre del 2010 ne bastavano 10mila. Due anni di deprezzamento continuo, poi il crollo.
La situazione è precipitata dopo che in luglio è entrato in vigore l’embargo sul petrolio iraniano decretato dall’Unione europea. Intanto si allunga la lista delle banche e di altri enti iraniani colpiti dall’embargo unilaterale imposto dagli Stati uniti, seguiti dall’Europa: e poiché gli Usa minacciano sanzioni anche a banche e aziende di paesi terzi che mantengano transazioni con l’Iran, per Tehran è sempre più difficile sia vendere il suo petrolio, sia anche ricevere i pagamenti per ciò che esporta, o pagare le merci che acquista, perché ogni trasferimento di denaro è più lento e costa commissioni sempre più alte. Fattostà che l’export di greggio iraniano è sceso a 930 mila barili al giorno in luglio, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Aie); in agosto è risalito a 1,1 milioni di barili/giorno (grazie a ordinazioni da Cina, Turchia, Giappone e altri), e sembra abbia tenuto in settembre, ma resta ben lontano dalla media di 2,2 milioni di barili/giorno del 2011. È il livello più basso dal 1989, quando l’Iran era appena uscito da otto anni di guerra e stava cominciando a ricostruire la sua economia.
Il calo delle esportazioni petrolifere da un lato fa crollare le entrate dello stato (tra poco il governo dovrà presentare il bilancio, e sarà in pesante deficit); dall’altro mette in difficoltà la banca centrale iraniana, che finora ha cercato di sostenere il valore del rial. E più la situazione resta incerta, con un’inflazione ufficiale al 25% (quella reale è stimata oltre il 30%), più gli iraniani corrono a comprare dollari o euro – facendo crollare ulteriormente il valore della moneta nazionale.
I tafferugli di ieri mettono in difficoltà Ahmadi Nejad, che martedì aveva convocato una conferenza stampa per spiegare la crisi del rial: ne ha attribuito la responsabilità alle sanzioni occidentali e alla speculazione interna. Così però ha ammesso per la prima volta che le sanzioni colpiscono pesantemente l’Iran: «Loro (i governi occidentali) sono riusciti a far diminuire le nostre vendite di petrolio, ma se Dio vuole ce la faremo», ha detto. Finora i dirigenti iraniani avevano detto che i clienti europei sono stati sostituiti da altri compratori (anche se il ministro del petrolio la scorsa settimana aveva dovuto ammettere a mezza voce il calo dell’export). Lo stesso Ahmadi Nejad ha sempre negato in modo sprezzante che l’Iran soffra per le sanzioni. Ora dice che l’embargo sul petrolio e sulle banche è una «guerra nascosta» che colpisce però il popolo, non il governo. Il presidente ha fatto appello agli iraniani a «restare calmi»; ha sostenuto che non ci sono reali ragioni economiche per l’instabilità del rial e ha accusato i suoi avversari politici di alimentare le fluttuazioni per «provare l’inefficenza del governo». Infine, ha minacciato di mandare la polizia ad arrestare «i 22 capofila della speculazione»: assomiglia a un regolamento di conti con gli avversari interni, e in ogni caso ha provocato la protesta dei cambiavaluta.
La scorsa settimana il governo di Tehran ha tentato una misura disperata, reintroducendo un sistema di cambi paralleli simile a quello in vigore durante la guerra Iran-Iraq. Un «centro di cambio» presso la banca centrale praticherà un cambio (al tasso ufficiale di riferimento) per l’importazione di beni essenziali, un secondo tasso (al 2% meno del mercato libero) per l’import di prodotti un po’ meno essenziali, e il tasso del mercato libero per tutti gli altri. Durante la guerra il sistema dei cambi paralleli ha alimentato la corruzione e fatto arricchire chi aveva le connessioni giuste per procurarsi il cambio migliore. Oggi sembra semplicemente aumentare il caos.
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