Crisi industriale, l’euro non c’entra

by Sergio Segio | 2 Ottobre 2012 7:33

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Infatti Taranto (allora Italsider, oggi Ilva) era controllata dalla Finsider, del gruppo Iri; Porto Vesme (allora Alsar, oggi Alcoa), faceva parte della filiera Carbosulcis- Eurallumina-Alsar del gruppo Efim; Pomigliano era l’impianto Alfasud, sempre dell’Iri, poi ceduto alla Fiat. La stessa Fiat, oggi in crisi produttiva e occupazionale, pur non essendo tecnicamente a partecipazione statale, ha sempre attinto abbondantemente alle finanze pubbliche, senza peraltro mai cedere il controllo azionario allo Stato.
Si tratta quindi della crisi di un intero sistema: di quel sistema che aveva permesso all’Italia, priva di energia e di materie prime, di dotarsi di un apparato industriale di prim’ordine, e di realizzare tassi di sviluppo oggi inimmaginabili.
Sarebbe stato possibile mantenere il sistema semipubblico, eventualmente con le necessarie riforme, coniugando gli obiettivi pubblici con i vincoli privatistici? Da un lato abbiamo la risposta positiva della Cina, dove pubblico e privato coesistono integrandosi a vicenda, con effetti propulsivi del tutto evidenti. Dall’altro abbiamo il penoso esempio di un’economia di mercato che crea malessere sociale, debiti pubblici e privati, precarietà , provvedimenti restrittivi durissimi, ecc.
Non appare dunque corretto attribuire tutti i problemi tanto italiani quanto europei all’adozione dell’euro, come da qualche parte si vorrebbe, per giustificare l’ipotesi demenziale di un’uscita dall’Unione europea e dallo stesso euro: i problemi, che pure esistono, derivano dall’accettazione indiscussa e fideistica di un modello – quello dell’economia di mercato pura e dura – che condannerebbe l’Italia ad una condizione di sottosviluppo e di disoccupazione senza possibili vie di uscita, a tutto vantaggio delle economie europee centrali (Germania, Francia, Olanda e Belgio).
Possiamo ricordare senza timore di smentite che a livello europeo i più accaniti (e forse non disinteressati) sostenitori del libero mercato furono il visconte Etienne Davignon per la siderurgia e il commissario Karel Van Miert per le tlc: ed anche quest’ultimo settore, i cui utili, assieme a quelli delle Autostrade, contribuivano, all’epoca dell’Iri, a compensare le perdite di altre attìvità , è oggi, caduto il monopolio, in grave crisi. Né serve ricordare che in Francia Edf è ancora sotto il controllo dello Stato, o come molte delle maggiori società  elettriche tedesche appartengano ai Laender.
A livello italiano, il grande privatizzatore è stato Romano Prodi, che ha (forse ingenuamente) creduto che la grande impresa privata fosse ormai capace di sostituirsi a quella pubblica, che il sistema bancario (una volta sottratte al controllo pubblico le tre b.i.n. – Comit, Credit e Banco di Roma) non si sarebbe immediatamente cartellizzato, con pregiudizio tanto dei risparmiatori che delle imprese, e che in un clima di concorrenza mondiale l’unica prospettiva di crescita occupazionale in Italia consistesse nel precariato (in questo d’accordo con l’ex ministro Tiziano Treu).
Né appare migliore l’altro settore dell’industria di base, dove il protagonista era l’Eni, vale a dire la chimica di base. Oggi assistiamo alla cessione o allo smantellamento delle raffinerie; domani toccherà  a quel che resta. Il settore minero/metallurgico ex Egam è stato già  liquidato dallo stesso Eni.
E’ il momento di chiedersi se tutto ciò sia stato giusto ed opportuno; non tanto per un’impossibile palingenesi (dove potrebbe lo Stato trovare risorse sufficienti per riprendere il controllo diretto dell’economia, o almeno di una parte importante di essa?) quanto perché non si continui ad insistere, come purtroppo avviene, che non si è privatizzato abbastanza, e che i pochissimi settori dove ancora lo Stato svolge un ruolo – e dove quindi è minimo il ricorso al lavoro precario e ad altri marchingegni privatistici – sono proprio quelli che ostacolano la ripresa e la crescita del sistema.
* ex Direttore centrale Iri

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