CONFLITTO E POTERE L’ETA’ BIOPOLITICA

by Sergio Segio | 3 Ottobre 2012 6:09

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Nelle interviste raccolte nel volume Dall’impolitico all’impersonale (Mimesis), Roberto Esposito, tra i filosofi italiani più conosciuti all’estero, ricapitola il suo percorso degli ultimi dieci anni, concentrato intorno alla nozione di “vita”, e lo articola secondo tre direttrici.
La prima è per l’appunto l’elaborazione teorica della nozione di “biopolitica”, ereditata da Foucault ma sviluppata secondo percorsi originali. Dopo l’età  del liberalismo e della borghesia, nello scenario che si apre con i totalitarismi, ma non si chiude con essi, siamo entrati in una fase biopolitica, quella di un potere che si esercita direttamente sulla vita. Rispetto alla impostazione di Foucault, tuttavia, Esposito propone una biopolitica “affermativa”, che non consiste soltanto nel controllo e nella censura, al limite nel diritto di vita o di morte, ma è piuttosto l’espressione della vita che fa valere i propri diritti nella politica.
In questa affermatività  si inserisce una seconda ipotesi, che Esposito ha articolato più di recente, e che riguarda i caratteri originali della filosofia italiana, considerata come “pensiero vivente”. Seguendo una linea che da Machiavelli, attraverso Bruno, Campanella, Vico, Croce, giunge a Gramsci e all’operaismo, il pensiero italiano si sarebbe caratterizzato per un peculiare interesse per la politica in quanto espressione di un conflitto vissuto come un elemento positivo (vitale, appunto), e che non trova composizione nell’ideale di uno stato.
Questo carattere di lungo periodo sta, secondo Esposito, alla base di un fenomeno recente, affrontato in più di una delle interviste, e cioè il successo internazionale di una “Italian Theory”, di matrice principalmente politica, che sembra aver preso il posto della “French Theory” che ha furoreggiato negli Stati Uniti, nei dipartimenti di letteratura comparata e di studi politici nell’ultimo trentennio del secolo scorso. Quella che viene a disegnarsi è una filosofia della storia meno iperbolica di quella tracciata nell’Ottocento da Bertrando Spaventa, ma più credibile. Per Spaventa la filosofia, cacciata dall’Italia dai roghi dell’Inquisizione, era migrata in Europa fecondandone il pensiero, sicché quello che tornava nell’Italia dell’Ottocento, la filosofia di Hegel, non era che una metamorfosi della filosofia italiana, una restituzione. Più modestamente, con Esposito, potremmo osservare che la tradizione di filosofia civile italiana si è rivelata particolarmente adatta a dare una forma esplicitamente politica alle tesi del post-strutturalismo francese.
Tuttavia, se portiamo sul terreno concreto una nozione come quella di “biopolitica”, emerge un problema. A ben vedere, è proprio nelle primissime forme di potere che la natura biopolitica dell’autorità  si manifesta allo stato puro. Il re era anzitutto chi controllava i depositi dei beni, basti pensare che l’etimo di “tiranno” è il capo della fattoria, colui che controlla la produzione del formaggio (tyròs), e lo scettro evolve del tutto naturalmente dal bastone del pastore. E un sistema di governo che è risultato modellizzante per millenni, quello dei faraoni (raffigurati anche come animali feroci), trae la sua origine dallo sfruttamento delle alluvioni periodiche del Nilo. Senza ovviamente dimenticare la biopolitica negativa, cioè la tanatopolitica, che si dispiega nelle ecatombi rituali degli Aztechi.
Che queste ecatombi abbiano potuto riproporsi nel cuore del Novecento e al centro di un’Europa che si riteneva civilizzata fornisce certo ottimi argomenti per mostrare la persistenza della biopolitica. Ma dubito che questa constatazione di fatto possa in qualche modo risolversi in una legittimazione di diritto. Certo, c’è un senso in cui, come nelle tragedie di Shakespeare, la biopolitica sembra non solo il nucleo originario, ma anche l’essenza, del politico. Ma c’è anche un senso in cui lo sforzo della politica deve consistere nell’allontanarsi da questa origine. Insomma, più che l’essenza della nuova politica post-liberale, la biopolitica mi sembra essere il periodico riemergere di una forza arcaica, di un dionisiaco con cui fare i conti, ma a cui è sempre possibile, e doveroso, contrapporre l’apollineo della forma, della struttura, della norma.
Lo stesso Esposito, del resto, osserva a giusto titolo che la vita non è mai “nuda vita”, ha sempre una forma, che la protegge da se stessa e dagli altri o, nella terminologia di Esposito, la “immunizza”. Vorrei conclusivamente suggerire quale, a mio avviso, sia la forma principale di questa immunizzazione. Nel momento in cui il faraone cessa di venir rappresentato come un animale feroce si fa avanti la figura dello scriba, del contabile, del burocrate. È la nascita dei documenti, un evento, nella storia delle società  umane, di cui difficilmente si può sopravvalutare l’importanza, perché segna il sorgere di una sfera istituzionale fatta di norme, di leggi, di contratti che regolamentano la vita. Certo, si potrà  sempre obiettare che anche attraverso i documenti si può esercitare la violenza, e la storia è piena di testimonianze in questo senso. Resta che si tratta dell’unico modo con cui le società  umane hanno provato a vestire la “nuda vita”, dando forma alla forza, e difendendo la vita dalla sua bulimia.

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