Confessioni di un boia raccontate con ironia

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S i può scrivere con humour un libro sulla pena di morte? Si può fare dello spirito su un argomento del genere? Su certe cose non si scherza: questo è un imperativo assoluto della nostra civiltà , e sulla fine di un essere umano non si può scherzare. A meno che non lo si faccia a fin di bene, per coprire di ridicolo, oltre che di disprezzo, i dispensatori di morte in nome della giustizia. È quanto intese fare un giornalista francese nella seconda metà  dell’Ottocento, quando le condanne alla pena capitale erano routine giudiziaria. Si chiamava Henri E. Marquand questo strenuo difensore della vita umana, reso tale dalla frequentazione amichevole che egli poté vantare con Victor Hugo, forse il più grande scrittore cristiano, e dalla lettura del «rivoluzionario» libro di Cesare Beccaria.

Per costruire questo libello contro la pena di morte, Marquand intervistò Henri Sanson, penultimo carnefice di Parigi e discendente di una famiglia di boia: tale lavoro, con zelo, avevano svolto il padre, il nonno e il bisnonno. Ne vennero fuori racconti che definire raccapriccianti è poco e che, scusandosi di continuo per essere costretto a farlo, Marquand inserì nel suo libro Confessioni di un boia (Edizioni Endemunde, cura e traduzione di Gianni Gambarotta, pp. 110, 9,40).
Sta in questo mettere le mani avanti da parte dell’autore, l’originalità  del pamphlet, e nella sua vena ironica, un escamotage efficace per trattare una materia così ripugnante come la tortura e l’esecuzione capitale nei suoi infiniti, macabri risvolti.
Incredibile a dirsi, nel raccontare quanto di più orrendo si possa concepire a proposito della sofferenza fisica, l’autore riesce a creare una certa suspense, e a far vergognare un po’ chi lo legge («Ebbene, questo tipo di tortura, per terribile che fosse, non era nulla in confronto a tanti altri dei quali parlerò presto…»). Marquand sa usare la scrittura; lo fa con astuzia ma anche con evidente partecipazione emotiva, e più egli tenta di mostrare distacco nel rievocare le esecuzioni più truci, più traspare la sua intenzione «educativa», si potrebbe dire pedagogica. A proposito della lapidazione in uso un tempo presso gli ebrei, Marquand ricorda le sublimi parole di Gesù; parole che — scrive magnificamente — «valgono più di tutti i diamanti del mondo, parole che condannano la pena di morte per sempre: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”».
Dette da un giornalista del XIX secolo queste parole ci sono di conforto per il futuro: «Mi si dirà  che molte delle cose raccontate rivoltano la coscienza umana. Ebbene, è proprio perché rivoltano la coscienza umana che le ho raccontate. Era per dimostrare che i castighi eccessivi mancano sempre completamente il loro obiettivo, e non solamente lo mancano, ma ottengono un effetto diametralmente opposto a quello che la legge si proponeva».
Henri E. Marquand fa parte di uno stuolo di scrittori che fanno onore non soltanto alla letteratura ma al genere umano. Come pietra miliare nella storia della civiltà  occidentale rimane il Trattato della tolleranza che Voltaire pubblicò nel 1763, prendendo spunto dall’ingiusta condanna a morte del protestante Giovanni Calas; così come il rivoluzionario, per i suoi tempi, Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (1764) fece benefica luce sui rapporti tra gli uomini e il governo delle leggi, condannando l’uso della tortura. Su questo tema, settantotto anni dopo, Alessandro Manzoni avrebbe consegnato alla coscienza dei lettori l’ineludibile atto d’accusa che ha per titolo Storia della colonna infame.
Può uno Stato, in nome dei valori etici che i criminali sconoscono, agire come quegli stessi individui? Su questo quesito Albert Camus, ispirato da Arthur Koestler, costruì il memorabile pamphlet Riflessioni sulla pena di morte. E poi Honoré de Balzac che, con il breve racconto Un episodio durante il Terrore, sulla pietà  umana dice più di quanto si possa trovare in un’intera biblioteca. E Ivan Turgenev con L’esecuzione capitale di Troppmann e Tolstoj con le Confessioni; e Dostoevskij con I fratelli Karamazov, Delitto e castigo e L’idiota. Questo piccolo libro di Marquand ha oltretutto il merito di averli fatti ricordare.


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