Catalogna. Europa e Spagna, destini paralleli

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Per la quinta volta nella sua storia la Catalogna vede la possibilità  di ottenere l’indipendenza. Questa svolta verso l’emancipazione da Madrid ha delle motivazioni di fondo e congiunturali. Lo stato spagnolo è una creazione politica che si basa su una complessa serie di accordi che garantiscono la perpetuazione di un dominio economico e sociale e che si sovrappongono a una pluralità  di nazioni con una loro specifica identità  e una lunga storia alle spalle. Ma questa costruzione ha mostrato tutta la sua fragilità  nel 1978, in occasione di una transizione costituzionale a cavallo fra nazionalismi e centralismo.

Le autonomie regionali sono state il risultato di questo compromesso. In realtà  però l’accordo era un altro: apertura dei rubinetti finanziari per le comunità  autonome, grandi lavori pubblici, modernizzazione e futuro. Finché c’è stato del denaro da iniettare in investimenti che consolidavano il tranquillo dominio delle élite locali, questo accordo ha funzionato. La destra nazionale e locale ha saputo bene sintetizzare questo spirito: quando José Marà­a Aznar [primo ministro dal 1996 al 2004] proclamava dal palazzo della Moncloa “La Spagna va bene”, Jordi Pujol [presidente del governo catalano dal 1980 al 2003] gli rispondeva dal palazzo della Generalitat “E la Catalogna ancora meglio”.

Ma è a questo punto che entrano in gioco i fattori congiunturali. Il governo catalano di Convergencia i Unià³ [conservatore] deve scontare 822mila disoccupati e 22 mesi di dure misure sociali. A tutto questo si è aggiunto (con un effetto esplosivo) il blocco dei finanziamenti delle regioni autonome, deciso dal governo centrale in base alla revisione della Costituzione spagnola realizzata in tutta fretta su ordine di Berlino e di Bruxelles. Ordine come sempre eseguito con obbedienza dagli zelanti interpreti locali, rappresentati dal Partito popolare (Pp) e dal Partito socialista (Psoe) – gli stessi che adesso parlano dell’inviolabilità  della costituzione quando si tratta di autorizzare il popolo catalano a esprimersi per referendum sul suo diritto all’autodeterminazione.

Al centro di questa revisione costituzionale c’è il nuovo patto di bilancio fra Madrid e le regioni autonome caratterizzato dall’ossessione per il rigore, come un vero e proprio monumento alla mancanza di buon senso politico. Questo rifiuto di considerare le conseguenze esplosive che questi tagli alle finanze pubbliche avranno nelle relazioni fra lo stato centrale e le regioni denota una totale irresponsabilità  politica. In Spagna, come in Portogallo o in Grecia, il piromane berlinese e i suoi agenti locali hanno dato fuoco agli equilibri sociali, e poco importa loro se l’incendio libererà  i suoi demoni più terribili. Tutto deve essere immolato sull’altare del dio rigore.

E il governo catalano sa benissimo sfruttare questa irresponsabilità  politica. Di fronte ai catastrofici risultati economici e sociali del suo mandato, caratterizzato da una strategia di smantellamento dei servizi pubblici e dei diritti sociali, il presidente della Generalitat Arturo Mas accusa Madrid di limitarsi a prendere il denaro dei catalani e di non impegnarsi attivamente nei progetti pubblici della regione. Ma in realtà  la causa indipendentista sbandierata dalla Generalitat è soprattutto un comodo strumento per sviare l’attenzione dal degrado sociale ed economico provocato dalle proprie politiche.

Oggi la Spagna rappresenta – più del Portogallo e della Grecia – un modello su scala ridotta dell’implosione europea. I rimedi della troika producono nel nostro vicino uno smantellamento del sistema sociale, politico e territoriale. Eppure la tragedia dei Balcani avrebbe dovuto insegnarci qualcosa. Ma è difficile sperare di trovare negli uomini della troika le tracce di una coscienza storica, dato che si battono proprio contro questa coscienza.

Traduzione di Andrea De Ritis


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