Attentati, autobombe e petrolio la guerra infinita di Bagdad
BAGDAD — La gara d’appalto per una concessione petrolifera ricorda l’estrazione di una lotteria, con le offerte infilate in un contenitore trasparente dalle diverse compagnie internazionali e poi lette davanti alle telecamere della tv di Stato in una sala del sontuoso Hotel Rasheed, nella bunkerizzata Zona verde della capitale irachena. «Ma non s’illuda, tutto è già stato segretamente deciso nei corridoi del ministero del Petrolio», spiega Hussein Al Najm, manager dell’Iraq energy institute e professore di Economia all’Università di Bagdad.
Stavolta, più per ragioni politiche che per interesse economico, tra le 80 compagnie partecipanti l’asta l’hanno vinta la Lukoil, la Pakistan petroleum e la Kuwait Energy company: il permesso di esplorare alcuni giacimenti per future estrazioni se lo sono aggiudicati i meno accreditati e i meno competitivi, ossia i russi, i pachistani e i kuwaitiani. «E’ stato un avvertimento a chi ha cominciato a lavorare con la provincia autonoma del Kurdistan bypassando il governo centrale, perché sui contratti petroliferi i curdi sono meno avidi dei funzionari di Bagdad», dice ancora il professor Al Najm.
Intanto, a nove anni dall’invasione americana, e dieci mesi dopo la partenza dell’ultimo marines, l’Iraq resta un Paese straziato da lotte interne e roventi, quasi sempre a sfondo etnico o religioso, con il loro corollario di attentati, rapimenti, torture, ammazzamenti. Secondo i ministeri della Sanità e dell’Interno, il mese di settembre è stato il più cruento degli ultimi due anni, con 365 persone uccise e 683 feriti. Ora, sebbene la parola “riconciliazione” sia diventata un tabù e il premier sciita Nuri Al Maliki passi ormai per il nuovo dittatore di Bagdad, il Paese diventa ogni giorno più ricco. La sua capacità estrattiva ha raggiunto 3,2 milioni di barili di petrolio al giorno, più di quanto se ne produceva prima della caduta di Saddam Hussein. Questo dato, come ha trionfalmente annunciato il ministro del Petrolio, Abdelkarim Al Luaybi, porta l’Iraq a scavalcare il vicino Iran, colpito dalle sanzioni per il suo programma nucleare, e a conquistare la seconda posizione tra i Paesi dell’Opec. Non solo: l’anno prossimo, Bagdad intende aumentare l’estrazione a 3,4 milioni di barili al giorno, per arrivare a 4,4 milioni di barili nel 2016.
Inutile dire che qui tutto gira attorno alle riserve d’oro nero su cui galleggiano gli iracheni: oltre ad essere l’unica fonte di reddito (95 per cento del bilancio), il petrolio è anche la sola speranza per costruire un futuro. O meglio, per ricostruire un Paese esangue, indebitato con il resto del pianeta, dove mancano un milione di alloggi e cinquemila scuole. In Iraq le strade sono ancora arate dai cingolati dei carri armati, gli ospedali somigliano a dei lazzaretti e il pipeline “strategico” che dai giacimenti di Bassora attraversava il deserto fino ad arrivare in Siria è ancora in fuori uso per via delle bombe di guerre passate. «Il costo della ricostruzione, che si aggira attorno
ai 500 miliardi di dollari, sarà interamente coperto dai proventi del petrolio», assicura Tahmer Al Gadban, potente consigliere del premier Al Maliki per le faccende energetiche, che incontriamo nella blindatissima Zona verde, dove sono rintanati il Parlamento, il governo, le ambasciate. Non è difficile credergli, visto che le esportazioni di greggio fanno entrare nelle casse del Paese circa 10 miliardi di dollari al mese, e che i barili esportati dovrebbero raddoppiare nei prossimi quattro anni. «Entro il 2016, gli introiti petroliferi si aggireranno attorno ai 200 miliardi l’anno», giura Al Gadban, che con estrema circospezione sta cercando di sedare la disputa con il Kurdistan pur di non dover rescindere i contratti stipulati con i “giganti” Exxon, Chevron e Total.
E’ facile capire perché dopo trent’anni di guerre, di embarghi e di occupazioni straniere, le compagnie internazionali siano adesso così ghiotte di petrolio iracheno, i cui giacimenti sembrano davvero sconfinati. Le stime “accertate” parlano di 143 miliardi di barili, mentre quelle “supposte”, ovvero ancora da dimostrare, si attestano sui 200 miliardi di barili, pari quasi a quelle dell’Arabia saudita. Dal 2009, attratti da tanta ricchezza, petrolieri americani, britannici, coreani, francesi, italiani (Eni, che s’è aggiudicato il giacimento di Zubair) e via elencando sono tornati a estrarre alacremente petrolio iracheno. Le viscere dell’Iraq contengono anche enormi riserve di gas (3.158 miliardi di metri cubici), che però nessuno è ancora in grado di sfruttare per mancanza delle adeguate strutture, e che dagli “occhi” scavati nel deserto meridionale del Paese si disperdono nell’atmosfera. «Entro l’anno prossimo, grazie a investimenti operati da Shell e Mitsubishi dovremmo riuscire a fermare parte di questo spreco», sostiene il professor Hussein Al Najm.
A questo Eldorado energetico, fa da contrappeso l’inferno di un dopoguerra che stenta a sorgere. E’ il paradosso dell’Iraq contemporaneo: sempre più ricco e sempre più insicuro, con i centri del potere ancora costretti a vivere in un’oasi superprotetta, con interi quartieri della capitale che la polizia può decidere di “chiudere” dopo un attentato affogando la città nel suo traffico convulso, con strade che la popolazione può percorrere solo a piedi, sotto lo sguardo di soldati nervosi e armati fino ai denti. Una volta andati via gli americani, nella valle dell’Eufrate e del Tigri la democrazia è un concetto astruso e fragilissimo, alla mercé di una sparatoria o di un’autobomba. L’Iraq è più che mai una petrol-democrazia a forte rischio.
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