Ascesa e caduta del Celeste
MILANO. «IL PRESIDENTE ritiene sbagliatissimo prolungare la campagna elettorale per le regionali: ed è quindi in piena sintonia con il Pdl, che il Presidente si muoverà per andare alle elezioni il prima possibile». Chi fa questo forte annuncio agli elettori lombardi? Ma lui, il Presidente stesso, Roberto Formigoni, che in pieno trip da monarca bellicoso, parla di sé in terza persona. Come fosse la Regina Elisabetta, oppure esagerando, il Papa. La Lombardia trema, Milano sbadiglia, molti lombardi e molti milanesi si fregano le mani e già litigano sul dopo. Il noioso Albertini, l’agguerrito Tabacci, qualche outsider proveniente da profonde valli leghiste o dalle ultime retrovie della sopita sinistra? Qualche signora della buona società milanese o del sindacalismo brianzolo? O, come una nemesi cui è impossibile sfuggire, ancora, e per sempre, il marmoreo, inamovibile Formigoni?
Ce ne libereremo mai, pensano, esausti, soprattutto quelli di Milano, una città che gli è sempre stata estranea, troppo cosmopolita e poco provinciale.
COME lui, Roberto Formigoni, è sempre stato estraneo a Milano, che non lo ha mai davvero amato, pover’uomo, anche quando si scommetteva sulla sua probità e capacità . Eppure, pur venendo da Lecco, a Milano si è laureato, alla Cattolica, e ha incontrato il suo maestro Don Giussani; dopo una veloce carriera parlamentare anche europea, diventato Presidente della Regione Lombardia, a Milano si è stabilito, scegliendo di vivere in una comunità di laici cattolici; qui nel 1995 si è insediato negli uffici firmati nel 1961 da Giò Ponti, qui ha costruito il monumento al suo potere, il Pirellone 2, capolavoro di cristallo di uno studio archistar americano, premio per il più bel grattacielo europeo che Formigoni stesso ritirerà a Chicago tra qualche giorno, regalandosi una tregua dal tumulto politico e giudiziario milanese, e regalando alla città una pausa dalla sua inviperita e vociferante combattività .
A Milano c’è il San Raffaele, con il defunto protettore don Verzé e le truffe che hanno portato il venerato ospedale alla bancarotta, e il centro della fondazione Maugeri
su cui hanno lucrato allegramente e sfrontatamente i suoi scalmanati amici che stanno finendo in prigione, compromettendo in modo irreversibile la sua intangibilità prepotente e il suo imperio cieco.
Quella sua dittatura pareva invincibile, 17 anni su una montagna di denaro pubblico, di trappole politiche, di ladri affamati, scalata da quell’ ’ndrangheta sprezzante e minacciosa che ha invaso ormai da tempo la sua regione: senza che lui, troppo impegnato a darsi consensi, se ne accorgesse, senza che i suoi fidi sistemati in amministrazioni locali, lo ritenessero un pericolo, piuttosto che come un’altra buona occasione, scivolando nel malaffare come inevitabile strada per mantenere poltrone
e privilegi.
Lui quasi invisibile in città , se non negli ultimi anni presente a un paio di sfilate di moda, sempre le stesse, di industriali amici, imbarazzato nella prima fila affollata di starlette che lo attorniavano entusiaste, compresa la sua ex fidanzata Emanuela Talenti, pronta a farsi fotografare con lui e che via lei, non era stata più sostituita. Anche lì, con le modelle sculettanti a pochi centimetri dal suo naso refrattario, senza raccogliere i sospetti, i sussurri, che la ’ndrangheta si stava avvicinando pure al nostro glorioso made in Italy.
Naturalmente lo si vedeva in televisione con la sua bella faccia di sessantacinquenne in gran forma, l’eterno sorriso di sufficienza e scherno, l’erre moscia sibilante di disprezzo, non una difesa dalle domande pericolose, ma un rifiuto inglorioso della realtà : senza mai perdere la calma, tranne l’altro giorno, quando, percependo il baratro, ha minacciato di querelare Alessio Vinci che gli poneva le solite domande diventate di colpo insopportabili e inevitabili. Con tutto il potere che Formigoni ha avuto e ancora ha sulla Lombardia e quindi su Milano, non è mai riuscito, o non ha mai voluto, conquistarla, se non certo nel periodo elettorale: i suoi gusti, il suo piacere, le sue amicizie, le sue idee, i suoi affari, il suo prestigio, le sue ambizioni, le sue scelte di vita, lo hanno sempre portato altrove, Bagdad, Bruxelles, Roma, Varese, la sua Lecco che l’altro giorno ha osato fischiarlo. Poi addirittura nei Caraibi.
Ed è da queste isole vacanziere, da subito cancellate dal turismo dei milanesi di classe per queste presenze inopportune, che il pio gentiluomo di Comunione e Liberazione, dopo una lunga carriera in varie formazioni politiche cattoliche (Dc, Ppi, Cdu, Cdl) confluito poi nella più vispa Forza Italia e quindi nell’ormai moribondo Pdl, scopre che il voto di castità e povertà non impedisce di far baldoria,
di tuffarsi dagli yacht, di viaggiare sontuosamente, di farsi fotografare in mutande, sdutto come un ragazzo, in mezzo a belle signore in bikini.
Se sono altri a pagare, non c’è peccato, o, visto che lui nega ancora ogni favore, lassù sarà perdonato se usa il suo ottimo stipendio per il proprio svago virtuoso, anziché devolverlo, come sarebbe doveroso secondo le regole della sua comunità , la Memores Domini, a chi poi lo ridistribuisce ai bisognosi; a meno che siano ritenuti bisogni doverosi quelli suoi, di andare a Parigi con un lieta brigata di fedeli. Ferreo ciellino da sempre, io lo ricordo quando alla fine degli anni ’70 si cominciò a discutere di una legge per l’interruzione di gravidanza e, invitato a dibattiti, si scagliava contro quella eventualità con tale violenza da ammutolire le pur attrezzate femministe di allora.
Come Presidente della Regione e casto scapolone, non ha mai nascosto il suo fastidio per l’autonomia delle donne, per esempio tentando inutilmente di opporsi all’introduzione in Italia della pillola abortiva, e privilegiando negli ospedali lombardi il personale medico obiettore di coscienza.
Per compiacere il Vaticano, ha rifiutato che nella sua regione fosse applicata la sentenza della Corte d’Appello che autorizzava l’interruzione dell’alimentazione forzata della povera Eluana Englaro, in coma irreversibile da 17 anni, che chiuse la sua tragica vicenda in una casa di cura di Udine. Se Formigoni non è mai stato molto simpatico alla buona società milanese,
che comunque in gran parte l’ha votato per quattro mandati, come al solito per paura dei famosi anche se estinti, “comunisti”, neppure i cattolici non intruppati in Cl lo amano: per la superbia, l’esibizionismo, l’autoritarismo, l’assenza di carità . E per gli sprechi, in una regione colpita da una crisi morale profonda, dalla delusione di ogni colore politico, soprattutto dalla sempre più diffusa disoccupazione e paura, dove anche i ricchi si defilano nel basso profilo per non dare nell’occhio.
Massima dissipazione, quel monumento imponente e anche bello, alla sua grandeur che è appunto la nuova sede di cristallo della Regione, costata 500 milioni, spiegati come un vero risparmio (ma la vecchia non è stata abbandonata): per lasciare ai posteri il segno del suo regno, il nuovo Pirellone doveva essere il più alto dei tanti grattacieli di grandi firme che stanno cambiando l’orizzonte di Milano, come fosse Shangai o Seul: ma i suoi 39 piani, i suoi 167 metri di altezza, sono stati battuti, con sua irritazione, dalla torre Hines di César Pelli, che col suo pinnacolo raggiunge 231 metri (ma solo 35 piani). Di sicuro non lo ama neppure Berlusconi, che pure gli deve riconoscenza per essersi preso
in consiglio, contro ogni logica, Nicole Minetti, per tacitarla.
Ma certo come tutto il Pdl ne teme tuttora lo sfrenato sgomitamento, oltre l’impero lombardo sfregiato dagli scandali anche mafiosi, dagli avvisi di garanzia e dagli arresti di assessori e consiglieri, e lui stesso indagato per corruzione. Il suo presuntuoso destino potrebbe portarlo a Roma a metter casino nelle prossime elezioni politiche.
Ma intanto in Lombardia il suo potere potrebbe subire solo un’incrinatura di immagine, perché poi per esempio, la sanità lombarda è quasi del tutto in mano sua e dei suoi, e sarà difficile sottrargliela. Ma poi il vero problema sarà , per tutti: dove mettiamo la Minetti?
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