AL TEMPO DELLA RIVOLUZIONE

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Nato ad Alessandria d’Egitto nel 1917, dall’incontro fra una ebrea viennese e un ebreo polacco immigrato in Inghilterra e spedito in Egitto quale funzionario – e da questa origine familiare, possibile solo nel mondo degli imperi che andava declinando, trarrà  l’incipit per il suo volume The Age Of Empires – seppe utilizzare tanto il lascito cosmopolita quanto quella «posizione leggermente angolata rispetto all’universo», di cui si era parlato a proposito del poeta greco Kavafis, nato nella stessa città . Il suo cognome era il risultato di una serie di travisamenti della burocrazia imperiale attorno all’originario Obstbaum, che il nonno ebanista polacco aveva portato con sé emigrando in Inghilterra.
 Il suo rapporto con l’ebraismo, mai praticato religiosamente né riscoperto in età  avanzata, come accadde a molti intellettuali, si limitò al rispetto del principio fortemente ribadito da sua madre: «Non fare mai qualcosa né dare l’impressione di far qualcosa che lasci pensare che ti vergogni di essere ebreo»; un precetto che dichiarò di aver sempre cercato di osservare «benché alla luce del comportamento del governo israeliano, la fatica di attenervisi sia a volte quasi intollerabile». Agli ebrei di San Nicandro Garganico è dedicato uno dei suoi ultimi scritti, molto bello, uscito sulla London Review of Books.
Ma era anche consapevole di essere un sopravvissuto della «civiltà  ebraica delle classi medie dell’Europa centrale dopo la prima guerra mondiale». Tra Vienna e Berlino, dove visse da giovane, non c’era molta possibilità  di scelta, in quella Europa: si poteva diventare o comunisti o sionisti, e il giovane Hobsbawm compi la scelta del comunismo a cui rimase fedele per tutta la vita.
Nell’ambiente di Cambridge, tra grandi storici come Dobb e Cole, maturò rapidamente un personale ventaglio di interessi, uno stile e una forma di marxismo che ne avrebbero contraddistinto l’opera, rendendola immediatamente riconoscibile.
Una visione globale
Chi leggeva negli anni Sessanta The Age Of Revolution, che diverrà  il primo volume della grande quadrilogia sul mondo contemporaneo – non voluta né pensata tale all’origine – si rendeva conto subito di trovarsi di fronte a qualcosa di diverso rispetto a ciò che passava in genere per storiografia marxista. In quel libro, che rimane forse il più bello tra i suoi volumi d’insieme, non c’era il plumbeo economicismo di tante trattazioni, pur occupandosi in gran parte di economia, ma non solo: il mondo nuovo emergeva dall’intreccio di una «duplice rivoluzione», quella industriale che muoveva dall’Inghilterra e quella politica che dopo avere debuttato negli Stati Uniti trovava il suo pieno dispiegamento in Francia. Le due rivoluzioni confluivano e cambiavano tutto il mondo, non solo nel modo di produrre, ma in quello di pensare, di vivere, di sentire. Colpivano i capitoli sull’evoluzione della cultura, delle arti, delle scienze, della musica, che poi diverranno caratteristica abituale nella quadrilogia. Colpiva la dimensione internazionale della trattazione, in un libro dove c’era più Toissant Louverture che Danton o Saint-Just, dove si cercava di dar vita a una storia collettiva, basata sull’interdipendenza tra civiltà  europea e atlantica e quelle degli altri continenti; effettivamente globale molto prima che qualcuno immaginasse un termine come «globalizzazione».
E in questo modo, soprattutto, si riscopriva il vero Marx del Manifesto, non un filosofo regressista che deprecava un indistinto «capitalismo», ma l’esaltatore della portata rivoluzionaria che l’industrializzazione capitalistica aveva portato nel mondo, e che rendeva possibile anche il suo superamento. A «questo» Marx Hobsbawm si richiamerà  anche nelle sue ultime opere, e in particolare nel recentissimo Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità  del marxismo.
Colpiva la leggibilità  dell’opera, che non derivava da un compromesso con il rigore e la completezza. Né poteva parlarsi di «divulgazione», ma di una nuova interpretazione e di una nuova sintesi, completa anche nel dettaglio ma senza inutili sfoggi di erudizione.
Hobsbawm era del resto uno dei pochi storici che si era posto realmente il compito di «tentare almeno di comunicare con i cittadini comuni», senza che ciò comportasse uno scarto stilistico tra produzione storica e contributi giornalistici. «Mi sembra – affermava in una intervista degli anni Settanta – che sia molto importante scrivere storia rivolta non soltanto all’accademia. Nell’arco della mia vita la tendenza dell’attività  intellettuale è stata quella di concentrarsi in modo crescente nelle università  e di farsi sempre più esoterica, tanto da consistere nel lavoro di professori che parlano per altri professori, ascoltati distrattamente da studenti che devono ripetere le loro idee per poter superare i programmi di esami fissati da professori. Questo restringe considerevolmente la disciplina intellettuale».
Tra ribelli e banditi
I soggetti privilegiati nella sua lunga ricerca saranno ribelli, rivoluzionari, anche banditi, nell’intreccio tra idee rivoluzionarie e forme primitive di rivolta, dai ribelli del Monte Amiata a quelli del latifondo siciliano. Gente non comune, come recita il titolo di una sua raccolta, ma anche common gentry. E, anche e soprattutto, operai e lavoratori. Anche qui si nota la concretezza dell’approccio di Hobsbawm alla storia sociale, che per lui deve essere pienamente storia della società , e non sociologia retrospettiva.
Respingeva come schematica l’idea di una classe operaia come «una sorta di sottosuolo passivo e qualunquista… o come un immenso ghetto comprendente gran parte della nazione, o al più come una forza capace di mobilitarsi solo in difesa di interessi economici più o meno corporativi».
Era storia anche di «mestieri» e della loro trasformazione, talvolta rapida, a volte lentissima nel tempo; ma era anche storia «culturale», a pieno titolo, evoluzione di forme di coscienza e consapevolezza. La diffusione delle idee di Marx e il loro acclimatamento nei vari ambiti nazionali, di cui aveva parlato in sintesi nella Storia del marxismo Einaudi, erano parte integrante di questa storia.
In quello che è il profilo più aggiornato ed esaustivo in lingua italiana, Aldo Agosti aggiunge che Hobsbawm «vede affermarsi soprattutto dopo il 1890 una forte coscienza di classe nelle aree urbane, non identificabile però semplicemente con quella delle avanguardie di attivisti e militanti socialisti. I caratteri fondamentali di questa emergente coscienza di classe sono un profondo senso della separatezza del lavoro manuale, un codice non formulato ma molto forte basato sulla solidarietà , la “lealtà “, il mutuo aiuto e la cooperazione; e si accompagnano alla formazione di modelli di comportamento, di abitudini e di stili di vita sui quali Hobsbawm proietta rapidi ma efficaci squarci di luce: l’affermarsi del football come uno sport proletario di massa, lo sviluppo di un luogo di vacanza frequentato quasi esclusivamente dai lavoratori e dalle loro famiglie come Blackpool, la diffusione degli spacci di fish and chips, e persino l’adozione dell'”inconfondibile copricapo” del proletariato britannico, il berrettino reso poi celebre dalle vignette di Andy Capp degli anni ’60» (Aldo Agosti: Il test di una vita: profilo di Eric Hobsbawm, Passato e presente, n. 82, 2011).
Un altro tema assolutamente originale introdotto da Hobsbawm sarà  la demistificazione dei miti di fondazione delle nazioni moderne (le tradizioni inventate), che aprirà  un filone di interessi e di ricerca tuttora non esaurito.
Abbiamo detto che fu si proclamò comunista per tutta la vita, e rimase anche dopo il 1956 nel piccolo partito comunista britannico: ma nel corso degli anni divenne in patria un consigliere ascoltato del Labour Party, fortemente critico tanto della rigidità  «classista» dell’era di Kinnock, incapace di comprendere i mutamenti della società , quanto del New Labour di Tony Blair, null’altro che «un Tatcher con i pantaloni». Ma la svolta di Miliband è frutto anche in parte della sua critica, e di un rapporto personale e familiare (il padre fu valido storico e teorico marxista).
In realtà  Hobsbawm dichiarò di essersi considerato a partire dal 1956 un «membro spirituale» del partito comunista italiano alle cui idee si sentiva particolarmente vicino. Le numerose pagine «italiane» testimoniano di un lungo rapporto che fu anche familiarità  e condivisione di problematiche con una generazione di storici (Rosario Villari, Ernesto Ragionieri, Giuliano Procacci, Renato Zangheri) e anche di politici (Giorgio Napolitano, in modo particolare, che intervistò nel 1976, quando la breve fiammata dell’«eurocomunismo» aveva acceso interessi e speranze destinate a declinare).
C’è in rete una «videolettera» toccante registrata il 20 marzo 2007 in cui Hobsbawm si rivolge ad Antonio Gramsci, con gratitudine e ammirazione, che più di ogni altro documento attesta il legame «italiano», sentimentale e teorico, dello storico inglese verso una forma di comunismo che sentiva vicina alla sua sensibilità .
La frana dell’Occidente
La sua popolarità  presso il grande pubblico, come abbiamo ricordato, derivò in gran parte dal Secolo breve, titolo italiano di The Age Of Extremes, volume che brevemente e forse un po’ bruscamente concludeva il ciclo del «Lungo Ottocento» che era stato oggetto dei volumi di sintesi che lo avevano preceduto. È la sua opera più discussa, e forse la più discutibile, per tanti motivi. Di fatto, Hobsbawm passerà  gli ultimi anni della sua vita a discutere, limare, correggere quelle interpretazioni, alla luce dei nuovi avvenimenti che cambiavano il quadro del mondo descritto nell’ultimo capitolo: la Frana, che seguiva improvvisamente all’Età  dell’Oro dell’Occidente. Ora la frana si è approfondita, rischia di travolgere tutto, e l’Occidente che si sentiva trionfante nell’Ottantanove appare sempre più in declino. Il secolo americano, che Hobsbawm aveva visto nascere, sembra avviato a chiudersi al momento della sua scomparsa, come aveva previsto a conclusione della sua autobiografia dieci anni fa.
In quella che è una delle sue ultime interviste, nel maggio 2012, l’interlocutore gli chiedeva: Cosa rimane di Marx? Lei, in tutta questa conversazione non ha mai parlato né di socialismo né di comunismo… E Hobsbawm rispondeva: «Il fatto è che neanche Marx ha parlato molto né di socialismo né di comunismo, ma neanche di capitalismo. Scriveva della società  borghese. Rimane la visione, la sua analisi della società . Resta la comprensione del fatto che il capitalismo opera generando le crisi. E poi, Marx ha fatto alcune previsioni giuste a medio termine. La principale: che i lavoratori devono organizzarsi in quanto partito di classe».
Quanto alla sinistra attuale, il giudizio era molto esplicito:
«Non ha più niente da dire, non ha un programma da proporre. Quel che ne rimane rappresenta gli interessi della classe media istruita, e non sono certo centrali nella società ».

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SCAFFALE

Dalla storia del jazz all’«Era degli estremi»

Questa la bibliografia di Eric Hobsbawm: «Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848», Il Saggiatore, 1963; «I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale», Einaudi; «I banditi. Il banditismo sociale nell’età  moderna», Einaudi; «Studi di storia del movimento operaio», Einaudi; «Storia economica dell’Inghilterra, III, La rivoluzione industriale e l’Impero. Dal 1750 ai giorni nostri», Einaudi; «Rivoluzione industriale e rivolta nelle campagne», Editori Riuniti;
«I rivoluzionari», Einaudi; «Il trionfo della borghesia. 1848-1875», Laterza; «Intervista sul Pci», Laterza, (colloquio con Giorgio Napolitano);
«Storia sociale del jazz», Editori Riuniti; «L’invenzione della tradizione», a cura di e con Terence Ranger, Einaudi; «Lavoro, cultura e mentalità  nella società  industriale», Laterza;
«L’Età  degli imperi. 1875-1914», Laterza; «Echi della Marsigliese. Due secoli giudicano la rivoluzione francese», Rizzoli; «Nazioni e nazionalismo dal 1780. Programma, mito, realtà », Einaudi;
«Il secolo breve», Rizzoli; «De historia», Rizzoli; «L’età  degli estremi. Discutendo con Hobsbawm del secolo breve», Carocci; «Intervista sul nuovo secolo», Laterza;
«Gente non comune», Rizzoli;
«Gente che lavora», Rizzoli.
«Anni interessanti. Autobiografia di uno storico», Milano, Rizzoli, 2002; «Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità  del marxismo», Milano, Rizzoli, 2011.


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