WEB POWER Da zero a cento, quanto vali davvero in Rete
Questa è la storia di un’intuizione che diventa un’ossessione e che adesso potrebbe cambiare il modo in cui viviamo. La considerazione che riceviamo quando prenotiamo un hotel o un biglietto aereo. Gli sconti che ci fanno quando andiamo a fare shopping. L’intuizione parte con una brutta operazione alla bocca. Joe Fernandez, figlio di un esule cubano che lavorava nei casino di Las Vegas, aveva trent’anni, un paio di startup fallimentari alle spalle e un problema: dopo l’intervento chirurgico non poteva parlare. Neanche una parola per tre mesi. Il suo unico contatto con il resto del mondo, dall’appartamento di New York dove abitava, erano i social media che proprio allora, nel 2008, stavano iniziando a farsi largo. Facebook e Twitter. Fu allora che Joe si rese conto che nel web non siamo tutti uguali. Alcuni sono più influenti di altri, e quindi hanno più potere. Se ne accorse per caso.
Scrisse qualcosa sul suo cibo preferito, i burritos messicani, e molti iniziarono a chiedergli dove si potessero trovare dei buoni burritos. Lui lo sapeva e rispose: si rese conto che sul tema burritos era una persona “influente” e decise di misurare l’influenza di ciascuno. Di più. Immaginò di poterci fare un business e iniziò a proporre l’idea ai suoi amici per un finanziamento. Nessuno gli diede retta. Allora lasciò il lavoro nel settore immobi-liare, si accampò (letteralmente, in una tenda) a Singapore e investendo tutti i suoi risparmi formò il team con cui sviluppò la piattaforma a cui diede il nome che aveva scritto su un foglietto quel giorno a New York twittando di burritos: Klout, che suona come il termine inglese “clout” che vuol dire “influenza politica o avere un ascendente su qualcuno”. Qualche mese dopo la piattaforma era pronta e venne lanciata la sera di Natale del 2008. Non andò benissimo: i punteggi dei primi duemila utenti che si registrarono Joe Fernandez li calcolò a mano. E soprattutto c’era un problema: l’indirizzo web www.klout.com era di qualcun altro. Un tipo di San Francisco che non ci faceva nulla. Joe iniziò a tartassarlo di richieste ma quello niente. Finché un giorno grazie a Twitter scoprì il ristorante dove stava mangiando e gli piombò a tavola con una valigetta con cinquemila dollari. «Ok te lo vendo». Joe aprì il computer portatile, formalizzò il trasferimento del dominio e partì l’avventura del sito che oggi ha 100 milioni di utenti ansiosi di sapere quanto sono influenti.
Klout non è l’unico sito a misurare in qualche modo quanto valiamo sul web: è quello che lo fa meglio e che ha più successo. Ha un algoritmo che prova a tenere assieme gran parte della nostra vita social: quello che facciamo su Twitter (quanti tweet mandiamo e soprattutto che succede dopo, se qualcuno li segnala come preferiti, se innescano conversazioni, se vengono ritwittati e quindi mandati ad altre reti di persone); cosa succede su Facebook (anche qui, i like, le conversazioni ma anche i contenuti che altri mettono sul nostro profilo); l’andamento di LinkedIn e quello di Gplus. Il tutto sintetizzato da un punteggio, da 1 a 100, che dice varie cose: quanto siamo influenti, popolari, emozionanti; e in quali campi. Questo punteggio uno potrebbe prenderlo e buttarlo nel cestino. Ma negli Stati Uniti stanno succedendo cose strane. Chi ha un klout più alto ha più facilità a trovare lavoro. Viene trattato meglio quando viaggia. Riceve sconti e offerte. E se chiama un call center per protestare, la sua richiesta viene evasa prima e meglio, meglio non mettersi contro uno molto influente, capace di scatenare la rete. Ha senso? Qualche settimana fa, sul più importante sito di social media del mondo, Mashable, è stata pubblicata una ricerca per rispondere alla domanda: ha senso fare delle assunzioni in base al klout delle persone? La ricerca ha dato questi risultati: i direttori creativi delle migliori dieci agenzie pubblicitarie hanno un punteggio medio di 49,75, quelli delle dieci agenzie peggiori si fermano a 39,2; i responsabili delle dieci società più innovative arrivano in media a 60,25 mentre quelli delle dieci in fondo alla classifica si attestano a 42.
Cosa dimostra questa ricerca? Che l’influenza che ciascuno ha sul web si traduce quasi sempre in persone più influenti nella vita reale. Il confine è definitivamente caduto lo scorso aprile quando il settimanale Time, nel compilare l’annuale lista delle cento persone più influenti del mondo, ha scelto tanti attivisti digitali. Una scelta che il direttore Rick Stengel ha spiegato così: «La natura dell’influenza è cambiata… Oggi spesso viene dalla magica capacità della tecnologia e dei social media di superare il tempo e lo spazio cambiando le nostre percezioni. Prima che i microfoni e le tv fossero inventate, un leader doveva mettersi davanti alla folla e arringarla. Ora basta twittare una frase per raggiungere milioni di persone in un attimo».
La cosa ovviamente ha tanti lati oscuri. Il primo è la scarsa attendibilità e trasparenza degli algoritmi che calcolano la cosiddetta influenza, come ha vigorosamente protestato il guru del web Jaron Lanier, contrarissimo a questi metodi perché ci leverebbero libertà . Ma il rovescio della medaglia è la corsa generalizzata a comprare pacchi da mille di falsi follower su Twitter (il 70 per cento dei 19 milioni di follower del presidente Usa Obama sarebbe finto); o anche solo a condividere contenuti “facili”, copiati spesso, e non davvero autentici su Twitter e Facebook, nota Silvia Vianello, docente alla scuola SDA Bocconi e conduttrice del programma tv
Smart&Apps: «Lo fanno per avere tanti like e condivisioni, in modo da aumentare la propria presunta influenza. Ma così abbiamo una rete più povera». E poi in Italia, secondo la Vianello, «è un miraggio essere contattati da qualche azienda perché si ha un klout alto, perciò in definitiva il punteggio diventa un mero fatto di vanità ». Infine, anche quando funziona, e lo score serve per avere risposte rapide da un call center, «si tratta di un meccanismo un po’ distorto perché rende sempre più forti i forti e lascia senza potere gli altri».
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