by Sergio Segio | 25 Settembre 2012 7:41
ARSAL (LIBANO). La musica ad alto volume di un matrimonio, che giunge da una casa vicina, rallegra per qualche ora chi vive in condizioni difficili in questa scuola di Arsal. Diciotto famiglie, decine di persone, tanti bambini. Tutti sono giunti dalla Siria. In qualche caso da mesi, in altri da pochi giorni. Hind Matar non sa niente del marito da diverse settimane e si sente sola, di fatto abbandonata. «Non è facile andare avanti con dei bambini da sfamare. Ho un po’ di soldi ma finiranno presto, ci sono da pagare l’affitto, la luce e l’acqua», dice facendoci capire che nessuno ti regala nulla, anche se sei un profugo di guerra, anche se arrivi tra i «fratelli sunniti» di Arsal scesi in prima linea ad aiutare la ribellione in Siria.
Le organizzazioni fanno quello che possono per affrontare l’emergenza nella Valle della Bekaa e nel nord del Libano, lungo il confine con la Siria. L’Unhcr sta procedendo alla registrazione dei profughi ma non riesce a stare al passo con i continui arrivi. Ogni settimana tra Arsal e l’altro «valico» Wadi Khaled (Akkar) decine di nuove famiglie attraversano la frontiera porosa tra i due paesi.
Secondo i dati dell’Unhcr, sono almeno 72 mila i profughi entrati nel Paese dei Cedri dall’inizio della crisi siriana, 52 mila dei quali registrati. In gran parte si trovano nel nord del Libano. Altri 30mila, non registrati, si trovano a Beirut e nelle regioni meridionali. In maggioranza sono musulmani sunniti, coinvolti nei combattimenti in corso tra Homs, Hama, Aleppo e Deir a Zohor tra l’esercito governativo e i ribelli o che hanno perduto tutto ciò che avevano nei bombardamenti dell’artiglieria. Non mancano siriani di altre confessioni, a cominciare da non pochi cristiani che fuggono dalla guerra o che sono stati cacciati via dai ribelli sunniti nelle «aree liberate». Non si espongono, preferiscono tacere. I più ricchi hanno trovato una buona sistemazione a Beirut, pagando affitti da capogiro. Gli altri si concentrano nella zona della cristiana Zahleh, nel sud della Valle della Bekaa, ospiti di famiglie locali.
Un tetto per i profughi
«Il nostro compito è quello di dare un tetto ai profughi. Facciamo quello che possiamo ma la richiesta di aiuto è elevata e non sempre il soccorso arriva nei tempi giusti» spiega Martino Costa, uno dei responsabili della ong Norwegian Refugee Council (Nrc). «Ad Arsal – prosegue Costa – con il nostro sostegno 70 famiglie libanesi accolgono decine di famiglie di profughi e stiamo preparando 80 abitazioni vuote per altri rifugiati. Inoltre abbiamo riabilitato 18 luoghi di preghiera trasformandoli in piccole abitazioni che già accolgono molte famiglie. Senza dimenticare i programmi che abbiamo avviato a Baalbeck e nel nord del paese. In totale assistiamo circa 1500 famiglie e in futuro, quando avvieremo nuovi programmi assieme a Echo (l’emergenza dell’Unione europea, ndr) saliremo fino a 2600 famiglie».
In uno di questi piccoli edifici ristrutturati dal Nrc, vive Mohammed Sharif Adderi, padre di nove figli, scappato a marzo dalla provincia di Homs, che da qui dista poche decine di chilometri, durante la prima ampia offensiva dell’esercito siriano contro le roccaforti dei ribelli. «Abbiamo camminato per ore prima di raggiungere il punto di passaggio – racconta Adderi -, per fortuna la mia famiglia è sana e salva ma della nostra casa non so nulla, forse è stata distrutta. Quando potremo tornare in Siria? Non so, non presto comunque perché il presidente Bashar Assad è ancora forte, lo aiutano la Russia e l’Iran». Nell’appartamento vicino vive Hana, una giovane madre di tre figli, giunta quattro giorni prima sempre da Homs. «Ho camminato per chilometri, non so quanto – dice – ho visto distruzioni lungo il cammino e incontrato mezzi militari». Il marito è a combattere con i thwar, i «rivoluzionari» come qui chiamano i ribelli anti-Assad. Non è l’unico caso. Non pochi ribelli mandano le famiglie in Libano e in altri paesi per sottrarle ad eventuali ritorsioni.
Una fonte di reddito
Arsal, enclave sunnita in un’area a stragrande maggioranza sciita, nella Bekaa controllata dal movimento Hezbollah, in fondo non è diversa da altri centri abitati a ridosso di zone di conflitto. L’arrivo dei profughi siriani sta garantendo un reddito a tanti abitanti di questa cittadina povera, dalle case spoglie, non intonacate, che fonda la sua esistenza sulle cave di pietra, la coltivazione di ciliegi e, ovviamente, il contrabbando. Khulud, una rifugiata che incontriamo nella scuola occupata dai siriani, ci dice che ogni stanza costa tra i 100 e i 150 dollari al mese. Una somma da dividere tra le due talvolta tre famiglie che la occupano ma che rappresenta ugualmente una spesa che tanti non sanno come affrontare. Ad incassare gli affitti non è il comune ma un privato, proprietario dell’edificio scolastico. Senza dimenticare i 70 dollari che i contrabbandieri di merci e persone sottraggono ad ogni rifugiato che vuole passare il confine. Khaled, insegnante di Qseir, sempre nella zona di Homs, di dollari invece ne paga 350 per una casa vera, accanto alla scuola. Può pagare e non si lamenta più di tanto.
A mobilitare Arsal non è solo la solidarietà umana verso chi spesso ha perduto tutto e ha avuto morti tra amici e parenti stretti. Gli abitanti si sentono «assediati» dagli sciiti e ciò contribuisce a fortificare in loro la convinzione di dover aiutare i sunniti siriani oltre confine. La municipalità parla apertamente a favore dei thwar e dietro la tranquillità che regna nella cittadina è attivo un intenso traffico di armi, al quale si accompagnerebbe anche la partenza di giovani del posto che vanno a combattere in Siria. Tutto si svolgerebbe in segreto e provarlo non è facile. Qualcuno chiama il percorso che da Arsal porta al confine il «corridoio di al Qaida», in riferimento a presunti movimenti in entrata e uscita di jihadisti libanesi e di altri paesi. Non è un caso però che proprio ad Arsal furono liberati i sette ciclisti estoni rapiti nel 2011 nella Bekaa, poco dopo essere entrati in Libano dalla Siria in bicicletta. Un sequestro rivendicato dagli islamisti radicali del «Movimento per la rinascita e le riforme» (Harakat al Nahda wal Islah). È quasi superfluo sottolineare che la tensione regna nella zona, già in passato terreno di violenze interconfessionali, a pochi chilometri dal bellissimo sito archeologico di Baalbeck, molto visitato e sede di festival culturali e musicali. A breve distanza inoltre c’è il villaggio di Deir al Ahmar, dove viene prodotto il migliore hashish libanese, il Couvent Rouge. Qualche giorno fa le autorità hanno ordinato la distruzione di coltivazioni di cannabis ma è solo «spettacolo» per le tv, dicono da queste parti, dove l’hashish rimane una fonte di reddito importante per tante famiglie contadine.
Gli stipendi dei combattenti
Combattere in Siria si starebbe rivelando un mestiere redditizio per alcuni giovani sunniti di Arsal (e non solo) e sciiti della Bekaa e del sud del paese. Libanesi che dall’altra parte del confine sono l’uno contro l’altro. Per i sunniti ci sono a disposizione i soldi del Qatar e dell’Arabia saudita, ossia gli «stipendi» ai combattenti dell’Esercito libero siriano (Els) promessi da Doha e Riyadh durante le riunioni degli «Amici della Siria». Per gli sciiti quelli stanziati dall’Iran che appare sempre più coinvolto nell’aiuto militare al regime di Bashar Assad. Tehran qualche giorno fa ha ammesso la presenza in Siria e Libano di pasdaran, guardiani della rivoluzione islamica, che fanno da consulenti alle forze alleate. Una presenza che compensa quella di agenti segreti e addestratori militari occidentali, turchi e arabi che aiutano i ribelli siriani nel combattimento e nell’uso delle armi che ricevono. Chi non combatte fa i soldi vendendo armi, come quelli della mafia di Britel, un’altra località di frontiera. Da quelle parti un kalashnikov costa, a seconda del modello e dell’anno di fabbricazione, tra i 600 e i 1.200 dollari, molto di più, fino a 3mila dollari, un mitra statunitense o occidentale. Quelli di Britel però si lamentano, gli affari non vanno bene come prima. Il flusso di mitra e Rpg ai ribelli che arriva dai paesi della regione schierati contro Assad – Turchia, Qatar e Arabia saudita – ha fatto scendere il prezzo delle armi automatiche di contrabbando.
Ma ad Arsal c’è anche chi vuole condurre una vita tranquilla lontano da armi e guerra. Come Abdul Hojeiri, distante parente dello sceicco salafita Mustafa Ahmad Hojeiri, imam della moschea Dar as Salam, accusato di essere l’organizzatore del traffico di armi per i ribelli siriani (lui ha sempre negato), nonché del sindaco Ali Hojeiri, accanito sostenitore della causa del sunnismo. Abdul vende scarpe e ricorda con piacere quando viveva e lavorava dalle parti di Milano. Per lui portarci in giro è anche un modo per rispolverare dopo tanto tempo il suo italiano arrugginito. Tenendosi però sempre lontano dalla frontiera con la Siria. «Non ti conviene andarci» ci dice con insistenza «è lontana, tanto lontana, e poi ci vuole il fuoristrada». Sono pochi chilometri in realtà ma Abdul in quella zona proprio non vuole andarci.
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