VERSO IL SUD

by Sergio Segio | 15 Settembre 2012 8:45

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Il libro di Giovanni Valentini, che esce in questi giorni, Brutti, sporchi e cattivi(Longanesi, pagg. 208, euro 14), rivolge al lettore, fin dal sottotitolo, una domanda retorica: «I meridionali sono italiani?». Ed ecco, subito dopo, una professione d’amore: «Sono nato al Sud e amo il Sud: i valori, i colori, gli odori, i sapori del Sud». Come a volte capita agli amori veri, questo del giornalista e saggista barese legato al nostro giornale non conosce indulgenza. Si distingue, anzi, per severità . Nessuna acquiescenza vi trova posto. Lo stile è serrato: tanti numeri, tante citazioni. Si tratta di un atlante ragionato dei mali e dei vizi di quella parte del nostro paese, e della incapacità  delle classi dirigenti a curarli o alleviarli. È facile accorgersi che nessun privilegio viene accordato dall’autore alla natìa Puglia, anche se è una regione, incomparabile, pur con tutti i suoi inconvenienti, al trio-record del degrado meridionale (e perciò italiano): Campania, Calabria, Sicilia. Base di partenza è, fatalmente, la “questione meridionale”. Essa appare a molti un problema cronico, la cui “eternità ” – essendosi da tempo conclusa, con esiti scoraggianti, la quarantennale politica degli “interventi straordinari” e dei finanziamenti “a pioggia” – autorizza stereotipi genetici da una parte, e dall’altra un opposto “animal spirit”. A nutrire quest’ultimo è un diffuso revisionismo antirisorgimentale – i piemontesi ci invasero, il Nord ci affama, stavamo meglio quando si sostiene che stessimo peggio, i Borboni non meritano alcun discredito storico – che spesso nasconde un sottofondo fatalistico. Ne risulta, nel Sud, un’ulteriore spinta verso il basso. Se mi è consentita una nota personale, conservo nella memoria il monito di un ormai antico maestro di “meridionalismo”, Francesco Compagna: gli inviti alla secessione, egli diceva, quando partono dal Nord denunziano orrendi pregiudizi razziali, quando si manifestano al Sud nascondono impulsi di sanfedismo e di “jaquerie”, tipici di chi considera lo Stato “un nemico”. Ecco dunque autorizzata la discesa a quella calamità  civile che è «l’incesto tra politica e affari». Il Mezzogiorno, che ne è la massima fucina, rappresenta un rischioso covo di contagio. La violenza di linguaggio in uso tra la Lega e i “revisionisti” si nutre di frasi fatte, e produce tanti alibi che rendono difficile spartire torti e ragioni. E infatti, quando ci si riferisce, come spesso accade, a quel “familismo amorale” che è tipico del nostro Mezzogiorno, il pensiero corre subito per ilare analogia alle vicende che hanno coinvolto di recente Umberto Bossi, parentado e figliolanze. È il peggio del Sud che emigra, assurgendo a modello nazionale? In assenza di soluzioni, certe consuetudini attribuite al Sud minacciano di evolversi in un “caso Italia”? Prospettiva non rosea. In molte pagine di Valentini, l’ansia documentaria si mescola a un’angoscia da meridionale scontento. Nel suo vademecum delle deficienze del Sud, si direbbe che nulla manchi: dall’economia mafiosa o camorristica alla sanità  malata, dallo scempio urbanistico e abitativo alle periodiche esplosioni d’un ribellismo da disperati; dalla fuga dei giovani che trasforma la loro patria in un “un ospizio virtuale” per anziani alla frequente presenza di invalidi fittizi, fino al terrificante arbitrio in tema di assun- zione ed occupazione. Per registrare su questo tema un caso- limite, raccontato anche da Repubblica, che può suscitare un sorriso, la provincia di Palermo annovera fra i propri dipendenti qualche “spalatore di neve”, cui l’amministrazione versa l’ammontare di uno “straordinario” per il mese di luglio. Ecco perché il motivo dominante dell’opera appare l’inattualità  di molte speranze. Si va dalla storia alla cronaca, rafforzate entrambe da attenti rimandi testuali. Verso la conclusione del racconto compare una figura proverbiale del meridionalismo, Gaetano Salvemini, del quale s’immagina il postumo disinganno nel constatare che «a distanza di più di cent’anni» da quando la questione meridionale – è sempre lì la nota di fondo – pareva a certi spiriti eletti un’incombenza improrogabile “per trasformare l’Italia”, i posteri «continuano a parlarne perché non sono riusciti a risolverla». Pollice verso, dunque, senza remissione? Valentini non ce la fa a ergersi a censore incondizionato. Alla denuncia, che nel libro sfiora l’invettiva, segue una “pars construens”, giocata sulle enormi potenzialità  del Sud, troppo a lungo inesplorate e neglette. Sfilano davanti al lettore i residui motivi di fiducia che animano il saggista. Eccoli riassunti in “tre A”: ambiente, agricoltura, alimentazione. Essenziali sarebbero, inoltre, l’attenuarsi dell’isolamento geografico mediante la creazione di collegamenti ferroviari meno arcaici, un’adeguata riflessione sul turismo, ricchezza ineguagliabile; un nuovo impegno nel campo delle energie alternative, favorite dalle condizioni climatiche. E che dire delle fonti di energia tradizionale? Molti, ad esempio, ignorano «che la “povera” Basilicata dispone di un giacimento petrolifero nel sottosuolo pari alla fornitura che preleviamo dalla Libia ». Sono i requisiti locali che Valentini segnala in questo suo trattato, rivolto principalmente ai propri “conterroni”: così li chiama con un solidale neologismo. Soprattutto il Sud, in definitiva, può salvare il Sud, e quindi l’Italia, ripensando se stesso e il proprio habitat. Prima che sia davvero troppo tardi.

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