Una Convention per allontanare gli incubi Obama a caccia dell’entusiasmo perduto

by Sergio Segio | 3 Settembre 2012 6:47

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WASHINGTON. CI SONO 73.788 sedili vuoti ai quali il presidente Obama dovrà  rispondere questa settimana, se vuole sperare di essere rieletto. Sono i posti nel grande stadio delle “Pantere” del football a Charlotte.
È LàŒ che ambiziosamente, forse troppo ambiziosamente, ha scelto di tenere il discorso finale della Convention Democratica e che rischia di rimanere semivuoto. Quella che agli organizzatori e agli strateghi del Congresso democratico era sembrata una grande idea, ripetere il trionfo oratorio e televisivo celebrato nello stadio di Denver, in Colorado, quattro anni or sono, è diventata un incubo. Un rischio che potrà  sigillare il suo tramonto di fenomeno politico già  finito dopo un solo giro sulla giostra del potere o salvarlo.
Non si vincono elezioni semplicemente riempiendo stadi o palazzi dello sport. Ma in quelle guerre di simboli, di sensazioni e di racconti mitici che ormai le campagne elettorali sono ovunque diventate, la differenza fra la Denver del 2008, che proiettò il candidato Obama verso un trionfo, e la Charlotte del 2012, che parte scossa da dubbi e da ansie, racconta la parabola di un uomo che aveva promesso di cambiare l’America e ora è ironicamente accusato di averla cambiata troppo, senza in realtà  averlo fatto.
Tra la bagarre per trovare un biglietto di ingresso nello stadio di Denver e l’inappetenza per entrare in quello di Charlotte, dove il Partito Democratico sta distribuendo biglietti a chiunque li voglia, c’è la narrazione fiacca di un presidente che deve ritrovare lo spirito e l’essenza del proprio successo. L’entusiasmo. La passione di quell’elettorato giovane, latino e soprattutto femminile che credettero al messaggio del cambiamento, alla mobilitazione dello “Yes, we can”, sì, possiamo, e che oggi sono inclini, se non alla protesta amara degli Occupy Wall Street che ha già  cominciato a far rumore anche a Charlotte, alla rassegnazione. Non saranno Mitt Romney, l’uomo vuoto per tutte le mezze stagioni, né il vice Paul Ryan, che ha molto annacquato la propria ideologia neo liberista e antistatalista per non spaventare l’elettorato “over 65” o lo sketch del vecchio Clint con la sedia vuota a sconfiggere Obama — che ieri lo ha “perdonato” — se dovesse perdere. Sarà  stato lui stesso a sconfiggersi.
Le ricerche demografiche, nelle ore di una Convention irta di trappole e di rischi, a partire da quel Bill Clinton che sarà  la stella attesa ma le cui simpatie per Obama sono notoriamente tiepide (seppure non gelide come quella della signora, che si terrà  lontana da Charlotte) dicono che il blocco di coloro che voteranno “contro” il presidente è ormai granitico e stabile attorno al 46%. Ai fanatici del Tea Party che vedono in lui una reincarnazione dell’aborrito modello europeo di welfare pubblico (leggi: Grecia) ai finanzieri di Wall Street che non lo foraggiano più, dai razzisti che non hanno mai digerito l’immagine di una famiglia di africani nelle stanze del “massa”, del padrone bianco ai piccoli imprenditori terrorizzati da possibili e nuove tasse, Obama può contrapporre una coalizione genericamente progressista, che non vuole Romney, ma non detesta con la stessa passione ringhiosa con a quale la destra odia il presidente.
Purtroppo per Obama, la forza travolgente del racconto, della incantevole affabulazione nella quale fu maestro, non basta più a riempire gli stadi e a esorcizzare
l’odio per lui, tanto personale quanto politico. L’anemia della ripresa economica, che ha inchiodato la disoccupazione sopra il fatale 8 per cento e ha lasciato inquieta sul futuro la maggioranza degli elettori, parrebbe a europei intrappolati nella decrescita un sogno, ma non ha rimesso in moto la “great american job machine”, il grande motore della creazione di lavoro. E se molti americani ragionevoli riconoscono che già  evitare il proverbiale “precipizio” creato da Bush nel 2008 fu un miracolo, le colpe di ieri non hanno mai fatto eleggere un presidente di domani. E proprio nelle ore in cui Obama salirà  sul podio nello stadio delle “Pantere” di Charlotte, il debito nazionale americano supererà  la somma record di 16 mila miliardi di dollari.
Eppure, in un quadro razionale e insieme irrazionale di demonizzazione, Barack Hussein Obama, il nero, il politico dai nomi impossibili, il deludente, il troppo moderato per la sinistra dipinto come il nuovo Lenin dalla destra, ha ancora la possibilità  di farcela. Nel conteggio dei voti elettorali, nei quali, Stato per Stato, si traduce il voto dei cittadini ed è il solo che conti, Obama è in testa, con circa 225 dei 270 seggi necessari, contro i 185 di Romney. I sondaggi, anche dopo il “bounce”, il salto in avanti prodotto dallo show repubblicano, vedono i due avversari ancora chiusi dentro il margine di errore, quindi alla pari. I tre dibattiti tv, che lo metteranno di fronte al laccato milionario in autunno, dovrebbero essergli favorevoli, più di quanto sarà  negativo lo scontro fra i vice presidente, «il sorriso senza un uomo dietro», Joe Biden e l’aggressivo, giovane Ryan.
Il fatto che di fronte a un vento contrario tanto teso le speranze di Obama continuino a restare in volo dice che moltissimi americani, e moltissime donne presso le quali il presidente mantiene un netto vantaggio, del sintetico Romney, un anziano della chiesa Mormone, dei suoi santini famigliari con la moglie da “Lucy e io” tv anni ‘50, del finanziere arricchito grazie all’eredità  paterna e a operazioni di raid aziendali nello stile di Gordon Gekko, «l’ingordigia è bella», non si fidano. E temono un’America nella quale la destra repubblicana faccia il filotto di Casa Bianca, Senato e Camera conquistando il potere di demolire decenni di diritti e di responsabilità  collettiva, attraverso nuove nomine nella Corte Suprema.
“Yes, he still can”, sì Obama ce la può ancora fare, se ritroverà  il filo di quella narrazione che le forbici della realtà  di governo sempre tendono a tagliare. E gli americani cominceranno davvero a occuparsi di elezioni dopo il discorso di Obama davanti allo stadio scoperto delle Pantere, per ora da riempire nel suoi 73.788 posti. Sul quale, come in fondo è giusto che sia dopo l’uragano in Florida, le previsioni del tempo annunciano pioggia.

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