Un Puskin impostore, calato dal suo piedistallo

by Sergio Segio | 13 Settembre 2012 6:07

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Al termine di un clamoroso processo che si concluse nel febbraio 1966, Andrej Sinjavskij fu condannato a una pena di sette anni da scontare nel campo di Dubrovlag in Mordovia per attività  antisovietica. Aveva pubblicato all’estero sotto pseudonimo alcune opere che andavano contro i crismi dell’ufficialità  letteraria e ideologica sovietica (insieme a lui fu processato e condannato con le stesse accuse a cinque anni di prigionia Jurij Daniel’).
Nei mesi trascorsi nel carcere di Lefortovo in attesa della sentenza Sinjavskij esaudì una vecchia richiesta della moglie, Maria Rozanova, e lesse, chiosando e prendendo appunti, la biografia di Puskin redatta da Vikentij Veresaev. È questa una cronaca quasi giorno dopo giorno della vita dell’autore dell’Onegin con infiniti dettagli e dati fattuali. Sinjavskij, conquistato da quella lettura, continuò a meditare su quell’opera durante la detenzione al Dubrovlag nelle ore d’aria destinate a brevi passeggiate e di lì a rielaborare la propria ricezione di Puskin e della sua opera.
Di queste sue riflessioni cominciò a scrivere nelle lettere dal lager alla moglie, costruendo così nel tempo uno specifico testo critico-letterario, le Passeggiate con Puskin appunto, che immaginò materializzarsi come considerazioni sul grande poeta esternate durante le ore d’aria insieme al grande poeta e al proprio alter ego e pseudonimo-coautore Abram Terz, simpatico borsaiolo di una canzone della mala odessita. Ne nacque un’opera certamente dissacratoria che secondo alcuni è il primo importante esempio di decostruttivismo postmoderno in Russia (Spivakovskij parla di «mito postmoderno di Puskin»), ben prima del Mosca-Petuski di Venedikt Erofeev o della Casa di Puskin di Andrej Bitov.
Nelle sue lettere Siniavskij-Abram Terz, sulla base della quotidiana frequentazione con Puskin, tende a costruire un’immagine non canonica del grande poeta, a farlo scendere dai polverosi piedistalli della ufficialità  accademica e anche politica, specie dopo la comparsa negli anni Trenta di studi come quello di Valerij Kirpotin, Il retaggio di Puskin e il comunismo (il grande poeta vi era visto come un sostenitore della futura collettivizzazione, un po’ come certi pubblicisti d’epoca fascista avevano visto in Dante l’assertore dell’Impero e del sistema delle corporazioni …) e la definitiva canonizzazione in chiave staliniana del 1949 (150 anni dalla nascita).
Il Puskin visto attraverso gli occhi di Abram Terz è assai differente da quello canonico, anzi è portatore di evidenti tratti di relativismo, non a caso alla fine egli assume i lineamenti di un Chlestakov, l’impostore, eroe gogoliano dell’Ispettore generale, se non addirittura di un vampiro, il vurdalak, che succhia il sangue per rinnovarsi e restare giovane. Nel libro viene smontata l’idea della verità  assoluta e incontrovertibile, è come se tutto divenisse opinione e il Puskin canonico, ma anche quello per così dire di Self Presentation, quello dell’Exegi monumentum, risulta fortemente relativizzato.
In questa prospettiva è come se si disgregasse l’immagine del Puskin storico, ma anche del Puskin saggista e studioso di storia, quasi la si volesse liberare dalla necessità  e dalla collocazione storica per attribuirgli una ricezione soggettiva del mondo circostante. In qualche misura si tratta di un approccio diffuso nella cultura russa, a cominciare almeno dal ritratto del poeta tracciato da Lermontov nella sua celebre lirica La morte del poeta, ritratto di poeta romantico ribelle, che male si conciliava con l’immagine del Puskin della maturità . E si pensi poi a Marina Cvetaeva che scrisse un Il mio Puskin.
Nel libro di Sinjavskij il grande poeta tra piroette e improvvisi dietrofront tende a confondersi con i suoi eroi, specie con Evgenij Onegin quasi a confermare nel relativismo degli stessi dati biografico-personali quel principio della contraddizione che Jurij Lotman sottolineò come centrale nella struttura del celebre romanzo in versi nell’aspirazione a mostrare la realtà  nel suo farsi e disfarsi nell’intreccio dei punti di vista e dei riferimenti.
La leggerezza, la levità , l’erotismo, risultano tratti distintivi del Puskin di Sinjavskij-Terz , il fatalismo, il caso, il gioco, suoi punti di riferimento. In effetti, sulla base di citazioni, rimandi, interpretazioni talvolta azzardate, Sinjavskij offre un’immagine del grande poeta inusuale, ardita, personale, ma genuina. Liberato dalla polvere della retorica, alla luce delle fonti e della memorialistica a lui coeva, il Puskin di Sinjavskij si mostra in tutta la sua gioiosa e irriverente vitalità , tra apparente spensieratezza, allegra indisciplina e ricchezza di pensiero (lo notò Baratynkij già  dopo la morte del poeta). Non è dunque una semplice boutade quanto afferma Sinjavskij: «È il vuoto il contenuto di Puskin. Senza di esso egli ignorerebbe la pienezza, non esisterebbe, come non esiste il fuoco senza l’aria….»,
Scritto negli anni 1966-68, il libro fu pubblicato per la prima volta nel 1975 a Londra e già  alla sua uscita fu al centro di un serrato dibattito negli ambienti dell’emigrazione russa parigina e non (ovviamente in Urss il libro giunse per i canali non ufficiali del samizdat/tamizdat). I rappresentanti della vecchia emigrazione russa, con l’esclusione di Mark Slonim, rimasero offesi per l’atteggiamento canzonatorio e dissacratore del libro, per quel processo di decostruzione dell’immagine e delle tradizionali concezioni della poetica puskiniana. Anche rappresentanti dell’emigrazione più recente, come Aleksandr Solzhenicyn, condannarono il libro in difesa dell’immagine oramai sacralizzata del poeta nazionale russo. L’autore di Arcipelago Gulag accusò Sinjavskij di non aver tenuto conto delle letture puskiniane dei filosofi religiosi del primo Novecento. Ma come avrebbe potuto farlo rinchiuso nel Dubrovlag, non era quella una saraska dove i condannati potevano portare avanti le proprie indagini scientifiche… Negli ambienti nazional-patriottici si parlò addirittura di russofobia, accusa che ritorna spesso, anche in tempi più recenti.
Al tempo stesso molti altri lettori, anche quelli che riuscirono a procurarsi il testo in patria, ne esaltarono i tratti di eleganza e finezza intellettuale. Si formarono per così dire due partiti e la contrapposizione si ripropose anni dopo, quando il libro poté vedere la luce in patria al tramonto dell’Urss. La rivista «Questioni di letteratura» pubblicò nel ’92 gli interventi di un dibattito tenutosi due anni prima, e in verità  anche oggi la discussione rimane viva, alla luce dei forti sentimenti nazionalpatriottici che caratterizzano tuttora certo pensiero critico-letterario russo. Eppure, già  allora, un grande critico e filologo come Sergej Bocarov notò: «Parlano di derisione e d’improperi contro Puskin. Ma io leggo e vedo solo un’apologia, un entusiastico ditirambo».
E poi, sia detto per inciso, il libro già  difficilmente definibile per genere e tratti narrativi, rientrava perfettamente nelle linee creative del Sinjavskij prosatore, amante del grottesco e della metafora, e, in definitiva, anche del Sinjavskij critico e storico della letteratura, che aveva smontato la concezione del realismo socialista e del realismo tout court in un celebre saggio e nelle sue originalissime letture della storia letteraria russa e sovietica. Oggi quest’opera giunge anche al lettore italiano nell’eccellente versione di Sergio Rapetti, il quale accompagna il testo con una lunga e informatissima postfazione che ricostruisce nei dettagli la storia e la fortuna delle Passeggiate con Puskin (Jaca Book, pp. 192, euro 16) anche con l’ausilio di un utile glossario dei nomi, personaggi e opere citati. Una lettura fortemente coinvolgente che riesce a farci sentire accanto a noi la presenza viva di Aleksandr Puskin. Quasi ci trovassimo anche noi a passeggiare con lui e i due suoi eccentrici amici …

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