Un debito lungo 150 anni
Anzi, si può dire che il nostro Stato-nazione sorge, nel 1861, su una montagna di debiti contratti per sostenere le nostre guerre d’indipendenza. L’Italia, dunque, nasce indebitata, ma per ragioni ben diverse da quelle dei nostri anni. E tuttavia, allora come oggi, i gruppi dirigenti pensarono di trovare una soluzione mettendo in vendita il nostro patrimonio: in quel caso il vasto complesso dei demani ereditati dai vari Stati regionali. Si trattava di un immenso complesso di terreni ed annessi che si pensò di vendere ai privati per risanare le esauste casse del pubblico erario.
Come ha ricordato una giovane storica, Roberta Biasillo, sulle pagine di questo giornale (3 aprile 2012) contro questa scelta si levò la voce di un giurista dell’Italia liberale, Antonio Del Bon, che in un «manifesto» del 1867, elencava con grande saggezza e competenza le ragioni che sconsigliavano la vendita del nostro patrimonio immobiliare. Egli consigliava, al contrario, di offrire ai privati le terre demaniali con un contratto di fitto venticinquennale, così da non prosciugare i capitali di chi investiva, stimolando al contrario l’utilizzo produttivo dei terreni e lasciare tuttavia i demani in proprietà dello Stato, quale «Tesoro della Nazione… un tesoro produttivo indefinitivamente» da conservare anche per le future generazioni.
Ora, a consigliare di non vendere i nostri beni pubblici, ma di utilizzarli in altro modo per abbassare il livello del nostro debito, concorrono più ragioni che è bene non dimenticare. Innanzi tutto – e questo è noto anche agli uomini del governo – nell’attuale situazione di mercato l’operazione si configurerebbe come una vera e propria svendita. E ciò a prescindere dalla riuscita tecnica dell’operazione. L’obiezione secondo cui tramite un fitto di lungo periodo la somma che lo Stato incasserebbe sarebbe insufficiente, ha scarso valore, perché questo accadrà comunque. Vendere beni pubblici è difficile. E il rischio che lo Stato corre è di privarsi di un immenso patrimonio, con manufatti anche di grande valore, ricavando alla fine somme irrisorie. Questo è accaduto anche negli anni ’60 dell’800. Come ha ricordato la Biasillo, nel 1872 l’allora ministro delle Finanze Quintino Sella dichiarò alla Camera che dalla privatizzazione di beni il cui valore era 700.798.613 di lire, lo Stato aveva incassato solo 277 milioni. Non diverso esito si è avuto dalle vendite recenti. Dalle ultime due operazioni di cartolarizzazione del Governo Tremonti, a fronte di una privatizzazione di beni per 16 miliardi di euro, alle casse dello Stato ne sono arrivati solo due.
Ma occorre richiamare alla memoria una lezione storica che vale perfettamente anche per il presente. Tutte le esperienze di vendita di beni, sia statali che ecclesiastici, lungo l’intera la storia nazionale, mostrano un effetto che costituisce una costante per così dire perversa di simili operazioni. Esse producono un generale rafforzamento dell’attitudine redditiera dei privati e deprimono, di converso, l’ardimento imprenditoriale e l’attitudine al rischio. È un fenomeno elementare, facile da comprendere anche per gli economisti neoliberali. Chi esborsa un significativo capitale per l’acquisto, è poi in genere restìo a impegnarsi in ulteriori investimenti di valorizzazione produttiva. E’ facile immaginare che la vendita creerebbe una nuova manomorta in mano privata e sottrarrebbe capitali all’iniziativa imprenditoriale.
La convenienza a non vendere e a utilizzare i beni pubblici, come sosteneva Del Bon, quale «prospettiva di credito stabile e duraturo» trova oggi una singolare conferma nella recente esperienza della Finlandia, alle prese con gravi problemi di finanza pubblica. Come ha ricordato il primo ministro conservatore di quel Paese, Jyrki Katainen, in una intervista a Der Spiegel del 13 agosto – ne ha riferito Repubblica lo stesso giorno – anziché vendere i loro beni, i finlandesi li hanno utilizzato come pegno per l’emissione di nuovi titoli pubblici. Tale operazione ha ottenuto una notevole riduzione degli interessi sul debito, con un risparmio pari al 10% del Pil in un breve periodo di tempo. «Non dimenticheremo mai questa istruttiva esperienza» (We will never forget this formative experience)» conclude Katainen. Operazione dunque di grande interesse per noi, considerando che, in fatto di patrimonio immobiliare, la Finlandia non è certo l’Italia.
E qui veniamo ad un altro punto di riflessione. È vero che nel novero dei “beni pubblici” sono comprese tipologie molto varie di strutture e manufatti, anche di scarso valore storico-artistico e malamente utilizzati. Le amministrazioni locali spesso non conoscono gli immobili di cui sono proprietari, o che appartengono allo Stato, e pagano talora lauti affitti ai privati – come ha ricordato Paolo Berdini sul manifesto del 10 agosto – per ospitare scuole od uffici. Ma, fatte le debite distinzioni, occorre ricordare a tutti – ai nostri governanti, al nostro ceto politico, agli economisti e ai giornalisti che scrivono di temi economici – che i beni pubblici dell’Italia non sono i demani postunitari, né gli immobili della Finlandia. I nostri sono i beni ricadenti nei confini di un Paese che, secondo l’Unesco, racchiude il 60% del patrimonio artistico dell’umanità . Dobbiamo perciò chiederci: case del Rinascimento, chiese sconsacrate, castelli, monasteri, ville, palazzi signorili, devono finire in mani private? Ma quelle opere non solo hanno un valore artistico in sé, come singoli manufatti. Essi sono spesso legati a una più larga trama urbana e territoriale e compongono, nel loro complesso e nel contesto del nostro paesaggio, la bellezza dell’Italia, la sua fisionomia e la sua identità nel mondo. Quindi la sua ricchezza inalienabile presente e futura. Quella ricchezza che nessuna mirabilia tecnologica può riprodurre, che non può essere minacciata dalla concorrenza delle manifatture cinesi o indiane, ma che oggi, paradossalmente, può essere distrutta dall’interno, dal ceto politico di governo.
Molti di quei beni racchiudono il nostro passato, la nostra memoria, la trama della nostra storia e del genio nazionale. E allora? Devono perdere la loro natura e fisionomia di bene comune, di patrimonio collettivo, essere smembrate e accaparrate da mani privati, magari da coloro che nell’ultimo ventennio hanno fatto le loro fortune nelle scorribande piratesche della finanza deregolata? C’è infine una ulteriore ragione di opposizione all’alienazione del nostro patrimonio. Una ragione sociale rilevante, che occorre mettere in campo contro la liquidazione della nostra identità e della nostra storia.
Come ha ricordato Ugo Mattei, molti di questi beni, nel corso di numerosi decenni, sono stati restaurati, hanno ricevuto tutela e manutenzione grazie all’intervento pubblico e quindi con il supporto della fiscalità generale. Dunque essi sono giunti sino all’attuale stato grazie al concorso materiale di tutti gli italiani. È evidente che essi appartengono a tutti noi, non solo come lascito della nostra storia, ma come frutto del nostro lavoro e dei nostri risparmi. Chi dà legittimità morale e politica di vendere il nostro passato a un pugno di uomini che nessuno ha eletto, che dureranno qualche mese alla guida del Paese? E per ripianare quale debito? Gli uomini della Destra storica, che misero in vendita il demanio, dovevano ripianare le spese sostenute per liberare con le armi l’Italia e realizzare l’unità del Paese. Ma oggi? Il nostro debito è pubblico perché grava su tutti noi, ma le sue origini sono prevalentemente private. Oggi dovremmo svendere il nostro patrimonio per rimediare a oltre 40 anni di privilegi del ceto politico regionale e nazionale, agli affarismi clientelari dei gruppi di potere, a costose “grandi opere”, alle facilitazioni alle grandi imprese (in primis e per decenni, alla Fiat) al complice lassismo fiscale dei vari governi, perfino alle spese di guerra (dai Balcani all’Afghanistan) in violazione della nostra Costituzione?
Eppure, tale strada segna un grave errore politico dell’economicismo neoliberista. Questo ambito della manovra del governo attuale – ma anche di quelli che nel prossimo futuro dovessero muoversi sulla stessa linea – costituisce una grande occasione culturale e politica per la sinistra italiana. Perché laddove verrà minacciata la vendita ai privati di manufatti importanti di un determinato territorio, sarà possibile attivare la reazione popolare in difesa di beni e monumenti che costituiscono, in tanti casi, il pregio e l’identità di un luogo. Non solo sarà possibile vedere all’opera Italia Nostra, il Fai ecc. che metteranno in evidenza il valore del singolo manufatto, ma sarà l’occasione per rendere le popolazioni più vivamente consapevoli dei patrimoni singolari che fanno la fisionomia del loro comune, del loro borgo, del loro quartiere urbano. E le lotte in difesa di questi speciali beni comuni, contro la loro privatizzazione, costituiranno l’occasione per mostrare ad aree sempre più vaste di opinione pubblica il fondo miserabile della cultura capitalistica del nostro tempo. Alla furia privatizzatrice del ceto politico neoliberista sarà possibile contrapporre l’idea di una società che difende i beni pubblici della bellezza, dell’identità dei luoghi, della memoria storica, della condivisione comune degli spazi del vivere sociale. Perché, infine, anche quest’altra drammatica differenza va segnalata, tra i padri della patria che nell’800 vendevano i demani e gli attuali governanti. Quegli uomini avevano un’idea dell’Italia che volevano costruire. I nostri governanti, tecnici di lungo corso del capitale, annaspano nel caos che essi stessi hanno contribuito ad alimentare. Il termine futuro, che ritorna ossessivo nei loro discorsi , è come la parola luce in bocca al cieco, testimonia lo smarrimento di ogni idea del nostro possibile avvenire. Nessun altra prospettiva emerge dalle loro parole se non rendere tutto il vivente perfettamente vendibile. La futura società che essi riescono a prefigurare non è che un pulviscolo di individui e di presidi privati tenuti insieme dagli scambi monetari.
Per questo, difendere i nostri beni artistici, il patrimonio collettivo della nazione, consentirà di mostrare ancor più nitidamente il nulla verso cui marciano questi fautori della crescita, il cui unico orizzonte è quello di sciogliere la società nell’acido del mercato.
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(la Repubblica, LUNEDÌ, 19 FEBBRAIO 2007, Pagina 21 – Esteri)