by Sergio Segio | 19 Settembre 2012 6:25
Quando, lavorando a un quadro, non so più a che punto sono né dove sto andando, quando sono in panne, mi dirigo verso la macchina per scrivere e scrivo “qualcosa”. Quello scritto ha per me una funzione di soccorso; mi protegge riportandomi all’essenziale. La nascita di un quadro risponde a un processo complesso, e i miei umori cambiano incessantemente nel corso della sua elaborazione. All’inizio passo per stati “fisici” in cui mi sento come rinchiuso nella materia del quadro, faccio tutt’uno con l’esistente. Comincia nell’oscurità , in una sorta di urgenza, una palpitazione. All’inizio ignoro quello che ciò significa, però esso mi spinge ad agire. Allora sono nella materia, nel colore, nella sabbia, nell’argilla, nell’accecamento dell’istante, senza distanza.
Ciò che si attua più da vicino, la testa quasi nel colore, quel “qualcosa” informe, è paradossalmente il più preciso. Poi prendo la rincorsa e tento di vedere, di distinguere quel che è davanti a me; dopo, mi chiedo come proseguire il lavoro con ciò che è già stato fatto. Ormai ho un faccia a faccia con cui confrontarmi. Posso confrontarmi con qualcosa che è là , all’esterno, davanti a me. Il quadro è là , e io sono qui nel quadro. A quello stato subentra immediatamente la delusione, un senso di mancanza. E tale mancanza non viene da quanto non avrei visto o avrei omesso di svelare. Tale mancanza non può essere colmata con l’aiuto di nessun’altra forma. A quel punto potrò riuscire solo facendo riferimento ad altri elementi, tutti altrettanto incerti, che possono essere storici, figurativi o di tutt’altra natura. È un fatto, il quadro assume il mondo a oggetto; è così che si concretizza. Quando è diventato oggetto esso stesso, lo espongo all’aria aperta, al vento e alla pioggia. Mi appello alla natura, che non è redentrice, perché mi aiuti a terminarlo. Ma non c’è solo la natura ad aiutarmi. Anche il linguaggio può farlo.
So distinguere un’opera d’arte da un oggetto di artigianato o di design in maniera apodittica, ex cathedra. Ma posso spiegarlo o inculcarlo in altri? No, perché ci saranno sempre degli individui per i quali certe cose sono arte e altre no. Per molti di loro, la moda nell’abbigliamento rientra nell’arte allo stesso titolo di un quadro, un’azione o un’installazione, e lo affermano in maniera perentoria. Poiché, in società , solo l’affermazione costituisce autorità . In quest’ambito non esiste dottrina dominante, né opinione universalmente valida. Io decido e affermo cosa appartiene all’arte e la mia affermazione diventa incontestabile. Succeda quel che deve succedere! Dobbiamo tener conto che un’opera d’arte può distruggerne un’altra. Per convincercene, riflettiamo sugli stili pittorici, su come l’impressionismo sia succeduto alla pittura accademica, e poi sua volta sia stato detronizzato dall’astrattismo… Ogni corrente artistica è nata dall’imperiosa volontà di reagire contro l’estetica dominante. Come regola generale, e per una sorta di immunità naturale nei propri confronti, l’arte si erge costantemente contro se stessa. Sembra poter esistere solo attraverso la propria negazione. Sottoposta all’autodistruzione, a quel “volere il male”, paradossalmente procura il bene. Ma è concepibile che quest’attacco dell’arte a se stessa sia violento a tal punto che un giorno essa non se ne risollevi e scompaia per sem-
pre? L’arte è permanentemente sottoposta a due tipi di aggressione radicalmente diversi e che, nonostante le loro peculiarità , si congiungono in uno strano modo. L’aggressione che potremmo definire “fatta in casa” è l’aggressione immanente all’arte, che, così come la sua reazione autoimmune, la ingloba in una forma di antiattitudine, respingendola ai margini dell’esistenza. Si dimostrò molto virulenta nei futuristi, in particolare in Balla o Severini che volevano sradicare tutto, arrivando a preconizzare la distruzione dei musei. E ciò costituì una reale minaccia per il futuro. Infatti l’atto iconoclasta, inizialmente avanguardista, persino rivoluzionario, era diventato una finalità in sé, una strategia di marketing, né più né meno. Un’altra aggressione è percettibile da poco. Proviene dall’universo della moda e da quello del design, che parassitano l’arte impiegando le proprie strategie e ciò facendo la impoveriscono, la volgarizzano.
Noi desidereremmo creare qualcosa che fosse al tempo stesso l’inizio e la fine. Ci piacerebbe giungere a quel punto culmine a partire dal quale, da una parte e dall’altra, tutto scende in verticale, e dove la più grande difficoltà è sempre quella di rimanervi. Ciò è impossibile, perché segue sempre la caduta, inevitabile, la scomparsa, che si producano in un alone dorato o nel nulla. Ma, come abbiamo visto in precedenza, l’autodistruzione è sempre stata lo scopo più intimo, più sublime dell’arte, la cui vanità diventa allora percettibile. Infatti, qualunque sia la forza dell’attacco, e anche quando abbia raggiunto i suoi limiti, l’arte sopravvivrà alle proprie rovine.
Nel corso della realizzazione di un quadro c’è sempre un momento in cui ci si dice che non vale niente. Il quadro in divenire, come l’essere, ha perso la sua forma definita per passare dallo stato di compiutezza verso il quasi niente. La tela e i colori sono lì…, e tuttavia esso ha già varcato una frontiera. Si è disfatto sullo sfondo omogeneo degli oggetti che lo circondano. Mi capita di fare questa constatazione il giorno dopo, arrivando allo studio. Mi dico che ho sbagliato strada, che ho condotto il progetto contro un muro. Non bisogna minimizzare le insidie sulla via che porta alla realizzazione del quadro, per quanto sia ancora più pericoloso prestare loro attenzione, perché se si ha paura il gioco è finito. Non c’è mai nulla di semplice. All’inizio un lavoro può sembrare poco interessante, prima di accorgersi, qualche tempo dopo, che possiede qualche cosa.
Quando giudico uno dei miei quadri, quando ritengo che non valga nulla, intravedo nello stesso momento la possibilità che diventi qualcosa. È un fatto, la realizzazione di un’opera comporta sempre un rischio positivo. Un niente che non va trascurato. È un metodo che applico ogni tanto ricoprendo il quadro di pittura nera, posandolo a terra e innaffiandolo d’acqua grigia e sporca, restituendolo alla natura, esponendolo all’aria aperta e alle intemperie. Allora è consegnato a se stesso, abbandonato dai buoni spiriti, come il profeta che non riusciva più a discernere la parola divina in mezzo al furore del mondo. Come Geremia, Isaia, Attar… Talvolta mi capita di seppellire i quadri sottoterra. Li inumo, poi depongo sulla superficie una campana grazie alla quale possano manifestarsi, segnalare la loro presenza. Quel congegno era usato nel cimitero di Saint-Marx a Vienna, dove alcuni abitanti nella prima metà del XIX secolo si erano fatti installare il meccanismo nella futura tomba. Infuriava un terrore endemico della morte apparente, del coma, e parecchi viennesi spendevano belle somme per sfuggire a quel destino funereo, per evitare l’angoscia. I feretri erano collegati tramite corde alla guardiola del custode. Se il presunto morto si fosse risvegliato, la campana corrispondente alla sua tomba si sarebbe messa a suonare nella guardiola, da dove il custode sarebbe accorso in aiuto.
Come il custode di Saint-Marx, aspetto il suono della campana per liberare i miei quadri dal coma. Mi è capitato di impilare quei quadri comatosi per farne torri. Alcuni soggiornano attualmente al museo di Wolfsburg. Nel consegnarli a se stessi, impongo loro di restare coricati. Nessuna tela può essere estratta dal mucchio, avere una vita indipendente o essere appesa al muro. È un’opera composta da un cumulo di quadri abbandonati. Per quanto materialmente presenti, poiché la superficie dipinta è nascosta restano solitari, nell’impossibilità di rivolgersi a un osservatore. In questo caso, essendo al museo, i quadri si trovano nell’impossibilità di azionare la campana, perché al museo “i giochi sono fatti”.
(Traduzione di Anna Maria Brogi Si ringrazia la Galleria Lia Rumma Milano/Napoli)
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