Trattativa Stato-mafia, il ritorno del «depistatore»

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ROMA — Vent’anni dopo il «depistatore» è finito nuovamente in carcere, ma il mistero delle sue anticipazioni sulle stragi di mafia non è stato svelato. Anzi, è diventato un pezzo dell’indagine sulla cosiddetta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra in quella stagione. E qualora il sessantaseienne Elio Ciolini — uomo dai burrascosi trascorsi giudiziari in Italia e non solo, riarrestato l’altro ieri in Romania per possesso di documenti falsi — fosse messo a disposizione dell’autorità  giudiziaria italiana, potrebbe diventare un testimone. Anche se potrebbe apparire velleitario attendersi, da un personaggio con la sua fama e la sua storia, parole chiare o chiarificatrici su come e perché, alla viglia degli attentati del 1992, lanciò un allarme che prima fu preso in seria considerazione e subito dopo declassato a «patacca».

Quando fece le sue fosche previsioni sulle bombe del ’92, a marzo di quell’anno, Ciolini era già  noto per i suoi ambigui legami con l’estrema destra e servizi segreti, nonché per aver tentato di inquinare le indagini sulla strage alla stazione di Bologna del 1980. Condannato per calunnia, arrestato nel dicembre ’91 metre era in compagnia di una ex poliziotta peruviana, il 4 marzo 1992 inviò dalla cella in cui era rinchiuso una lettera al giudice istruttore di Bologna, con l’intestazione «Nuova strategia tensione in Italia». C’era scritto: «Nel periodo marzo-luglio di quest’anno avverranno fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come esplosioni dinamitarde intese a colpire quelle persone “comuni” in luoghi pubblici, sequestro ed eventuale “omicidio” di esponente politico Psi, Pci, Dc sequestro ed eventuale “omicidio” del futuro Presidente della Repubblica. Tutto questo è stato deciso a Zagabria – Yu – (settembre ’91) nel quadro di un “riordinamento politico” della destra europea, e in Italia è inteso ad un nuovo ordine “generale” con i relativi vantaggi economico finanziari (già  in corso) dei responsabili di questo nuovo ordine deviato massonico politico culturale, attualmente basato sulla commercializzazione degli stupefacenti. La “storia” si ripete dopo quasi quindici anni ci sarà  un ritorno alle strategie omicide per conseguire i loro intenti falliti».
Otto giorni dopo, in una strada di Palermo, fu assassinato l’eurodeputato dc Salvo Lima, fedelissimo di Giulio Andreotti, principale candidato alla presidenza della Repubblica. Sulla base di quella e altre indicazioni, a metà  marzo l’allora ministro dell’Interno Scotti diffuse un allarme alle questure e prefetture d’Italia, affinché venisse «accentuata la vigilanza» per prevenire nuovi attentati e cogliere altri segnali sulla minacciata «campagna terroristica». Tra i possibili bersagli venivano indicati Andreotti e i ministri siciliani Carlo Vizzini e Calogero Mannino.
Il 18 marzo Ciolini mandò un’altra lettera in cui avvertiva: «Non a caso la mia informazione sugli eventi di quanto in oggetto, per sfortuna, si è rivelata giusta… Ora, “bisogna” attendersi un’operazione terroristica diretta ai vertici Psi, a personaggio di rilievo». La lista dei possibili obiettivi fu aggiornata con il nome del vicesegretario socialista Giuliano Amato. Andreotti provò a sminuire la minaccia, e dopo che fu svelato il nome di Ciolini come ispiratore della segnalazione la bollò come una «patacca». Il 23 maggio ci fu la strage di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone (in quel momento uno dei più stretti collaboratori del ministro socialista Martelli), sua moglie e tre agenti di scorta. Era il momento in cui Andreotti stava ancora tentando di salire al Quirinale, ma quella bomba gli sbarrò definitivamente la strada portando sul Colle Oscar Luigi Scalfaro. Il ministro Scotti ha testimoniato che dopo il suo allarme avvertì intorno a sé un isolamento politico al quale seguì, nel nuovo governo guidato da Giuliano Amato, la rimozione da ministro dell’Interno. Vicenda che, nonostante le spiegazioni fornite dai vertici democristiani dell’epoca, per Scotti resta ancora un mistero. «Non ho mai capito perché fu rivelato il nome di Ciolini — ha dichiarato ai giudici di Palermo —. Io fui giudicato un venditore di patacche, affrettato e impulsivo. Ciolini sarà  stato pure un noto depistatore, ma non era l’unica fonte. E poi i depistaggi si costruiscono anche su elementi veri».
Già  l’indagine palermitana chiamata «sistemi criminali» si soffermò sull’origine di quell’allarme, rilevando che «se il Ciolini non è fornito di doti “paranormali” di preveggenza, significa che egli era venuto in possesso di preziose informazioni sulla strategia di imminente attuazione». Quell’inchiesta finì in archivio, ma le copie degli atti sono ora confluite nel fascicolo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. A sostegno della tesi secondo cui alle istituzioni erano arrivati precisi segnali di ciò che i boss e qualcun altro avevano in serbo, e con l’arduo obiettivo di fare luce su un mistero che dura da vent’anni.
Giovanni Bianconi


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