Tra i bambini di Aleppo

by Sergio Segio | 11 Settembre 2012 6:25

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ALEPPO. Adue passi dalla Porta di Bab al Habib dieci soldati dell’Esercito siriano libero riposano in un vicolo che mi sembra un ottimo rifugio. È tanto stretto e scavato tra alti edifici, in verità  più miserabili che imponenti, da farti sentire al sicuro. Il rumore in queste ore insistente dei Mig 21 si dissolve nella luce abbagliante, nel caldo appiccicoso del primo pomeriggio, al punto da apparire un innocuo ronzio. Non cessa quasi mai e si finisce col dimenticare che è un costante annuncio di morte. Gli schianti dei proiettili sparati dai carri T72, o delle cariche esplosive piovute dal cielo, sganciate da quei Mig invisibili e assassini, arrivano come un curioso suono metallico. Sono puntuali. Le pause sono ben scandite. La gente dell’Aleppo, che i ribelli chiamano “liberata”, ha imparato a misurare le distanze e quindi pensa di
sapere dove altre vite sono state falciate, e se la sciagura è più o meno vicina. La città  è vasta, è una metropoli. È una grande roulette dove non si sa dove si fermerà  il prossimo proiettile. Gli spari isolati non sono presi troppo in considerazione. Sono diventati banali. Sono attribuiti ai cecchini, lealisti o ribelli, che mi dicono onnipresenti e inafferrabili come insetti che uccidono. Il riposo dei dieci soldati dell’Esercito siriano libero non è minimamente turbato dalla sinistra musica di guerra. E la loro assuefazione è contagiosa. Lo è anche per chi è appena arrivato ed è ancora sotto il trauma delle immagini: la città  contesa, gli ampi quartieri devastati e abbandonati, le urla eccitate dei guerriglieri, gli uomini e le donne anziane che avanzano titubanti nelle strade deserte, tra montagne di immondizie. Per contegno o perché non ha scelta, il nuovo arrivato ad Aleppo si adegua. Non tutti se ne sono andati, neppure da questo quartiere tartassato dalle bombe lealiste. Questa zona è tra le più povere.
Equando il capo della pattuglia a riposo mi invita a bere un tè scopro che molte case, in parte ferite dalle bombe dei lealisti, con pareti sfondate e scale pericolanti, sono affollate da famiglie in cui non mancano tribù di bambini. Sono famiglie che vivono accatastate, annidate in quel che è rimasto dei loro alloggi, a ridosso della prima linea. Da alcune ore, a causa di bombe occasionali o mirate, il quartiere non ha più acqua potabile. Come larga parte della città . E la sete può diventare più micidiale delle bombe. La Siria libera, come è annunciata al confine turco quando entri nella zona in mano ai ribelli, qui ad Aleppo comprende i quartieri popolari. Nur, la giovane siriana laureata in letteratura inglese, che mi fa da guida, e Mahmud, uno studente in legge con una pistola infilata nella cintura, che fa da autista, mi tracciano su una mappa della città  le zone periferiche in mano ai ribelli. Sono tutte povere. Il quartiere di Hanano sarebbe stato espugnato nei giorni scorsi, ma anche quello è abitato da classi sociali con scarsi mezzi.
I ricchi vivono, o perlomeno vivevano , non so quanti ne siano rimasti, nel cuore della città , attorno alla Cittadella. La quale si esibisce come una superba altura naturale dominante Aleppo ( dichiarata “patrimonio dell’umanità ” soprattutto grazie ai monumenti lasciati da Ghazi, figlio del Saladino). Ma là , attorno alla Cittadella, comanda l’esercito di Bashar el-Assad. C’è una linea di separazione,
un confine, che divide anche socialmente la città . I dieci soldati dell’Esl formano una pattuglia impegnata sulla prima linea. Era il loro turno di riposo e quando ritornano nelle postazioni mi invitano a seguirli. E’ un percorso a ostacoli, perché i vicoli zigzaganti si alternano a edifici sventrati, nei quali sono stati aperti passaggi che fungono da trincee di scorrimento. E infine, dopo una marcia senza sorprese, ecco gli altri, i lealisti, a portata di mano. Meglio a portata di voce. Sono tanto vicini, dall’altra parte di un vicolo, nella casa dirimpetto, che puoi chiamarli e parlare con loro. Anche se il dialogo è inevitabilmente agitato, e si preferisce il kalashnikov o il tiro dei cecchini. Uno della pattuglia in cui sono provvisoriamente intruppato, il più spavaldo, che ha una bandana nera che lo fa assomigliare a un pirata (nella vita normale, mi dice, faceva il contrabbandiere), spara una breve raffica di kalashnikov per attirare l’attenzione dei lealisti della casa di fronte, e poi si lancia in una lunga litania di improperi. Ma questa volta dall’altra parte nessuno risponde. Perlomeno al momento.
I dirimpettai sono soldati alawiti. I combattenti più sicuri per Bashar el Assad. Quelli di cui si può fidare, perché sono convinti che il loro futuro è strettamente legato a quello del clan o della famiglia Assad. Il padre di Bashar, Hafez el–Assad (nato nel 1930 e morto nel 2000) veniva da Qurdaha, un villaggio sulle montagne, a trenta chilometri da Latakia, città  mediterranea. Era un alawita, apparteneva cioè a una setta religiosa, di origine sciita, piuttosto maltrattata dalla maggioranza sunnita. I membri della comunità  erano contadini, al servizio dei proprietari sunniti, o erano addetti a lavori umili. Prima del potere coloniale francese, si chiamavano Nusayriya, dal nome del fondatore della setta. Negli anni Venti i francesi li ribattezzarono, li chiamarono alawiti, con riferimento ad Ali, genero di Maometto e capostipite degli sciiti. E li arruolarono nelle forze coloniali. Da più di quarant’anni, da quando la famiglia Assad è al potere a Damasco, gli alawiti occupano posti chiave, nel governo, nell’esercito, nell’amministrazione, nella polizia, meno nel commercio. Qui ad Aleppo sono le truppe di prima linea. Nel Paese rappresentano il dodici per cento della popolazione. Sono una forte minoranza.
Come lo sono i cristiani, insediati nel cuore della città  tenuta saldamente dall’esercito lealista, del quale gli alawiti sono le avanguardie. La Siria è una terra con profon-
de radici cristiane. Non solo perché Paolo di Tarso si convertì a Damasco. Da secoli qui vivono ortodossi armeni, siriani e greci; e cattolici siriani e greci. L’elenco non è certamente completo. Nell’insieme rappresentano più del dieci per cento della popolazione. Un’élite con un notevole peso economico è insediata nei quartieri attorno alla Cittadella (dove si trovano importanti chiese e santuari), o comunque nella zona controllata dall’esercito lealista. Per tradizione le minoranze sono in balia dei regimi autoritari, possono esserne le vittime o gli strumenti. O entrambe le cose. Anche se con cospicue eccezioni, il mosaico cristiano è stato trattato con riguardo, o più ancora, dal potere degli Assad che si basa, appunto, essenzialmente su un’altra minoranza, quella alawita.
La battaglia di Aleppo – della quale il cronista, impegnato a schivare le insidie concrete e in definita elementari, scorge con facilità  soltanto le divisioni più evidenti ha in realtà  tanti aspetti complicati non sempre apparenti. Quello più assillante riguarda le profonde radici della paura nelle forze a confronto, o nelle comunità  travolte dal conflitto. Gli alawiti temono la vendetta dei sunniti, e si aggrappano al regime di Assad; e a loro volta i sunniti temono la vendetta di Assad, che potrebbe seguire l’esempio del padre. Il quale uccise venticinquemila sunniti a Hama, e distrusse coi bulldozer la città , colpevole di essere stata il teatro di un’insurrezione favorita o orchestrata dai Fratelli musulmani. Questo accadde nel 1985 ma il fatto è ben vivo nella memoria. La reciproca paura impedisce una riconciliazione ed anche la pietà . Pochi, rari, sono i prigionieri, e molti i morti.
Basta superare la moschea Al Nasser, in un quartiere intatto ma deserto, per trovarsi in un altro punto della prima linea, a fianco degli insorti dei quali vale la pena studiare l’abbigliamento, e le insegne che esibiscono. C’è qualche bandiera nera islamica e alcuni uomini hanno la testa avvolta in un fazzoletto, anch’esso nero, su cui sono scritti in bianco versetti del Corano. La presenza di gruppi jihadisti viene ingigantita dal governo di Damasco che cerca di alimentare la paura del dopo-Assad, prospettando la presa del potere da parte di gruppi islamici estremisti. Ho incontrato dei libici, un iracheno, un egiziano, venuti a combattere con i “fratelli siriani”. E ho raccolto soltanto voci sui dissidi che sarebbero sorti tra laici e salafiti. E’ impossibile escluderli. In fatto di fanatismi non mancano gli elementi contradditori: l’Iran degli Ayatollah aiuta il “laico” Assad; e l’ Arabia Saudita aiuta i salafiti. La Siria è incline alla balcanizzazione: tante sono le comunità  che vivono entro i suoi confini (sunniti, curdi, cristiani, drusi, alawiti), e tante sono le potenze limitrofe o vicine che hanno interesse ad appoggiare una delle comunità . Cosi la “primavera” siriana è diventata una guerra civile.
Si calcola che l’Esercito siriano libero conti tra i trenta e i quaranta mila uomini, e che gli stranieri infiltratisi o accorsi apertamente per appoggiare l’insurrezione, si aggirino sui seimila. Il fatto che quest’ultimi siano sunniti sensibili al richiamo islamico non significa che siano jihadisti. Ma la paura dei cristiani è dovuta alla paventata ondata islamica. Questo mi ricorda la guerra di Spagna. Per paura dei comunisti (che tra l’altro avevano massacrato gli anarchici) nessun paese occidentale aiutò i repubblicani, lasciando via libera alla dittatura di Franco, aiutato dalla Germania nazista e dall’Italia fascista.
Era già  il pomeriggio avanzato (non ho avuto il tempo di controllare l’ora esatta)quando domenica, 9 settembre, il Mig 21 che ronzava da un pezzo sulle nostre teste, ha colpito un edificio a più piani sul lato opposto del viale a due corsie che stavamo percorrendo. Eravamo nel quartiere di Chaar, nella zona Nord-Est della città . Mahmud ha bloccato l’automobile come se si fosse trovato all’improvviso davanti a un muro. Non per lo spavento. Al contrario. Lui e Nur, entrambi armati di apparecchi fotografici, si sono precipitati dove il missile lanciato dal Mig 21 aveva aperto un cratere (dove poi sono stati ritrovati quindici morti). Dalle case sono usciti centinaia di uomini e donne. Una folla sempre più densa ed eccitata. Molti erano armati di kalashnikov e hanno cominciato a sparare contro il Mig 21, che volava a una quota irraggiungibile anche per la mitragliatrice pesante nel frattempo arrivata su un camioncino del mercato. Altri, disarmati, urlavano imprecazioni rivolti al cielo. La lotta impari illustrava la disparità  dei mezzi: da un lato la Siria di Assad che con il Mig trasformato in avvoltoio sorvolava la folla gettando shrapnel e missili, e a terra la Siria dell’insurrezione che sparava con le sole armi leggere di cui dispone contro un irraggiungibile obiettivo. A un certo punto sono arrivato a pensare che il jet di Damasco avesse creato un’esca con i quindici morti per poi attaccare la folla scesa per protestare nelle strade. Forse non era così, ma in quel momento di tensione il sospetto era ammissibile. La terribile ballata è durata a lungo, e non ho poi avuto la possibilità  di fare un bilancio completo. Mahmud e Nur puntavano i loro obiettivi contro l’aereo, come impegnati in un’assurda sfida. Entrambi sono rimasti feriti leggermente. Una scheggia di shrapnel ha colpito al ginocchio Mahmud. E Nur è ritornata con l’abito insanguinato per le piccole schegge che l’avevano appena graffiata.
No, la pietà  non è di casa ad Aleppo. Né dall’una né dall’altra parte, se è vero, come dice l’osservatorio siriano per i diritti umani, che venti soldati di Assad catturati al momento della presa del quartiere di Hanano, la settimana scorsa, sarebbero stati subito fucilati. Con le mani legate dietro la schiena.

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