Sulla torre l’ultimo sforzo dei disperati “Sfruttati e buttati via dall’Alcoa e dallo Stato”

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PORTOVESME (Carbonia) — Dice «Disperato 1» che mollano «solo se viene giù la torre». In assenza di buone notizie, s’intende. Per ora la vecchia torre dell’acqua oscilla, presa a schiaffi dal maestrale che soffia a 15 nodi sul ruvido fusto e le scale arrugginite. «Disperato 2» è cardiopatico. Gli hanno portato i farmaci utilizzando il cesto calato con la fune da «Disperato 3». E’ quello appoggiato alla ringhiera. Lo vedi arrivando allo stabilimento Alcoa dalla strada del Consorzio industriale. Cinquant’anni, due figli, 6.570 giorni di mutuo residuo, un quarto di secolo a sfornare alluminio per 1.400 euro e il capo che un giorno ti dice «mi costi troppo, grazie e arrivederci». «Da qui non mi muovo. Qualcuno, alla fine, dovrà  pagare per il disastro che stanno facendo sulla nostra pelle».
La disperazione ha messo le tende lassù, in cima al grande serbatoio a forma di fungo. Una torre dimenticata dai boss americani di Alcoa e anche da Dio. Però buona per fare la resistenza. Portovesme, ultima trincea. Quarantotto ore in balìa del vento, lo stesso vento che muove le decine di pale dell’Enel ficcate nella terra qui intorno (l’impianto eolico si estende fino quasi ai confini con la Carbon-Sulcis). La prima notte ha mandato pioggia e grandine e loro lì, dentro una tenda celeste e gialla, i panini al formaggio e le bottiglie di Coca cola, nel punto più alto dell’azienda che ogni giorno spegne tre celle elettrolitiche per far capire a 800 operai (500 dipendenti, 300 in appalto) che non è più tempo di lavorare. «Niente nomi, chiamaci «Disperati ». Perché lo siamo. Il nostro è l’ultimo stadio — raccontano — . Non vogliamo indennizzi né fare i mantenuti poveri dello Stato. Vogliamo lavorare. Ci fa onore lavorare. Come abbiamo sempre fatto». Portano caschetto e mephisto per coprire il viso i soldati buoni dell’Alcoa. Come arma usano il telefonino, oppure gracchiano la loro rabbia dentro il walkie-talkie. Arroccati là  in cima a 70 metri, dietro lo striscione con la scritta rossa “Disposti a tutto” ». «Passera ha fatto capire chiaramente che di noi non gliene frega niente. Passera lunedì si troverà  sotto l’ufficio un’intera provincia, poi vediamo se inizia a importargliene qualcosa». Pierpaolo Piras viene da Portoscuso. Anche lui 25 anni di servizio, reparto «Rodding», dove si realizza la preparazione e il fissaggio degli anodi (gli elettrodi sui quali avviene una semireazione di ossidazione). E’ incarognito. «Quando avevo 8 anni qui c’erano le vigne. Adesso c’è uno scempio,
un ammasso di ferro. C’è la miseria di 500 famiglie che si vedono già  sul lastrico». Il ferro, è vero, gli ha dato da mangiare. «Proprio per questo dico: perché il governo ci prende in giro dicendo che l’alluminio è strategico per l’Italia, e poi ci lasciano in mezzo alla strada?». Non si vede cassaintegrato Pierpaolo. «La Sardegna ha soltanto un milione di abitanti e il triplo dei cassaintegrati della Campania… Adesso basta». Gli operai della Alcoa vengono tutti dai paesi qui intorno, in un raggio di 50 chilometri. Perché è importante registrarlo? Perché al danno della chiusura delle celle (10 su 40 finora) si aggiunge la beffa delle bollette dell’Enel. La scorciatoia delle tariffe elettriche agevolate — il sistema con cui il governo ha convinto in questi anni gli americani a tenere aperto l’impianto di Portovesme dilatando l’agonia e peggiorando le cose — ricade direttamente sulle bollette di tutti. In particolare degli abitanti del territorio. Che si vedono togliere dalla finestra (la bolletta) parte di quello che entra dalla porta (lo stipendio del capo famiglia che lavora in Alcoa). «E’ uno schifo — tuona Alessandro Pinna, 48 anni, manutentore, di Carbonia — . La dignità  dell’uomo è finita lassù — indica la torre — . Ci sentiamo ingannati, ultimi anelli di una catena che ti spreme e poi ti butta via». Ci erano già  saliti nel 2009-2010, quando la fabbrica stava per chiudere. Adesso, però, capiscono che le speranze sono ridotte a un cero bagnato o poco più. Il presidente della Regione Ugo Cappellacci rilancia la svizzera Klesh apparsa tre mesi fa senza seguito. A sera, quando arriva il tiepido comunicato del ministero dello sviluppo sull’interesse da parte di «uno dei gruppi contattati in passato, fuori dallo stabilimento c’è chi vuol provare a essere ottimista. «Speriamo in Glencore — allarga le braccia Salvatore Pinna che ha una bambina di 21 mesi e lavora nell’elettrolisi » — . Sono gli unici che ci
possono salvare». Li ha evocati. Arriva la notizia — diffusa dai sindacati — della lettera spedita dalla multinazionale svizzera a Passera. «Sciolte le riserve, trattativa avviata… Forse». La radio trasmette il barlume ai tre “Disperati” sul silo. Anche se lo stesso ministero precisa che la lettera non è dalla Glencore ma dall’amministratore delegato di Portovesme Srl, Carlo Lolliri e che è molto prematuro parlare trattative. Ci si crede a metà . Stefano Ansaldi, meccanico, è pronto per andare a Roma a manifestare. «Bastonati sul lavoro, bastonati sulle bollette, bastonati perché viviamo in un posto di m… Con tutti questi impianti che, dopo avere scassato l’ambiente, adesso chiudono uno dopo l’altro». Se chiude l’Alcoa c’è tutta una filiera che va a farsi benedire. «Produciamo per la Ferrari, per la Fiat e per altre fabbriche del territorio — spiega Christian Ochs, elettricista in appalto — e tanti producono per noi». Per dire: l’80% del floruro che esce dalla Fluorsid di Macchiareddu, a due passi da qui, finisce nei reparti dell’Alcoa. In cima alla torre inizia un’altra notte. Adesso sono salite anche le torce da stadio e i fumogeni. Prima dell’alba forse si accenderanno. Il problema è che sotto ci sono i depositi di Gpl. «Siamo pronti a tutto», ripetono come un mantra le tute blu di Portovesme.


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