Sogni e dolori di un continente

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Nell’introduzione al suo ultimo libro, Globalectics, una raccolta di conferenze uscita in gennaio per la Columbia University Press, Ngugi wa Thiong’o rivendica l’importanza di una «teoria povera» come antidoto «a quelle tendenze teoriche che come aquiloni il cui filo si è strappato, fluttuano nello spazio senza possibilità  di tornare a terra». Con la sicurezza dell’intellettuale vero, che sa di avere scritto testi importanti e e di avere alle spalle una carriera eccezionale, Ngugi si può permettere di esaltare il valore della semplicità : nato nel ’38 nei pressi di Limuru, in Kenya, in una famiglia poligamica, dove si contavano ben ventiquattro bambini, lo scrittore è oggi uno dei più influenti intellettuali africani, autore di un’opera vastissima che comprende romanzi, saggi, drammi e testi autobiografici (fra i quali l’intenso Sogni in tempo di guerra, appena uscito per Jaca Book, traduzione di Guendalina Carbonelli, pp. 221, euro 16), per la quale è considerato uno dei più probabili candidati al Nobel.
Da anni esule negli Stati Uniti (dove attualmente insegna letteratura comparata alla University of California, Irvine), Ngugi ha affrontato il carcere duro negli anni ’70, in Kenya, per avere messo in scena un testo teatrale critico nei confronti del governo in carica – ma la vera colpa dello scrittore, agli occhi dell’allora vicepresidente (e futuro dittatore) Daniel arap Moi, era di scritto la pièce in gikuju, la sua lingua madre, accessibile quindi a un pubblico più vasto rispetto a quello dell’inglese ufficiale. È stato allora che Ngugi – il cui dialogo con l’autrice italo-somala Igiaba Scego inaugura oggi il Festivaletteratura – si è reso conto delle drammatiche conseguenze di questa frattura linguistica e ha deciso di non ricorrere mai più all’inglese per le sue opere narrative e drammaturgiche. Una decisione mantenuta fino ad oggi.
Sono passati oltre trent’anni da quando lei ha scelto di non scrivere più i suoi testi narrativi in inglese, ma in gikuju, la sua lingua madre. Come valuta il fatto che pochi scrittori africani abbiano seguito il suo esempio?
Per risponderle, dobbiamo partire dall’idea che in Africa, ancora oggi, l’inglese, il francese, il portoghese, sono le lingue dominanti: in tutti i paesi le politiche governative continuano a favorirle, e lo stesso fanno le istituzioni internazionali. La situazione che ci troviamo di fronte è sbilanciata: le lingue africane godono sulla carta, di maggiore attenzione rispetto a dieci o a vent’anni fa, ma non c’è una azione concreta perché esse vengano usate al di fuori della pura quotidianità . Immagini, per assurdo, che gli scrittori italiani, per essere riconosciuti nel loro paese e all’estero, siano spinti a scrivere solo in swahili. Ecco, questa è la situazione in cui si trovano gli autori africani. Tra i giovani, tanti vorrebbero cambiare questo stato di cose, ma chi scrive nelle lingue africane deve affrontare enormi problemi di pubblicazione e diffusione, senza contare che i premi letterari grazie ai quali si dovrebbero individuare le voci più interessanti si rivolgono solo a chi scrive in inglese, in francese, in portoghese. Insomma, è una lotta durissima e già  il fatto che ci siano autori in Kenya e altrove che, nonostante tutto, compongono le loro opere nelle lingue africane, mi sembra degno di nota.
Non pensa però che potrebbe trattarsi anche del fatto che mancano i lettori nelle lingue africane?
No, il pubblico c’è, i lettori ci sono. Tenga conto che queste lingue vengono parlate, e in molti casi scritte e lette, ogni giorno da milioni di persone. Il punto è che fino a quando inglese, francese e portoghese saranno le lingue del potere e saranno sostenute – come accade adesso – dalle politiche scolastiche e editoriali, le possibilità  di incidere sono poche. Certo, si intravedono segnali incoraggianti: sono nate riviste culturali nelle lingue africani, un numero crescente di intellettuali perora questa causa, ma sono esperienze isolate, mentre sarebbe necessario un linguistic power-sharing, una condivisione del potere linguistico.
A proposito delle politiche educative, molte pagine dI Sogni in tempo di guerra sono dedicate alle scuole che lei ha frequentato e ai sistemi di istruzione in vigore all’epoca coloniale. Le cose sono cambiate da allora?
Certo, con l’indipendenza moltissimo è cambiato: le scuole sono ben più numerose, l’accesso all’istruzione è decisamente più facile rispetto a quando io ero bambino e anche se non sempre le condizioni si possono definire ideali, già  il fatto che adesso non ci sono poteri esterni a dettarci le regole modifica completamente il quadro di riferimento. Resta però, come ho detto, la convinzione che l’inglese (o altrove il francese o il portoghese) debba avere un ruolo centrale nella formazione culturale di una persona e, soprattutto, un atteggiamento negativo nei confronti delle lingue africane.
Oggi molti intellettuali africani, lei incluso, vivono fuori dal continente. Non ritiene che anche questo possa essere un fattore di sbilanciamento rispetto alla condivisione del potere linguistico da lei auspicata?
Ma è evidente che chi vive all’estero deve fare i conti con la situazione in cui si trova! Uno scrittore che abita negli Stati Uniti e vuole essere pubblicato, dovrà  rivolgersi a editori americani e usare la lingua del potere. Vede, il problema delle lingue africane è un problema che si pone in Africa, e dunque la soluzione non può che essere in Africa. L’obiettivo che dobbiamo avere in mente, quello per cui sono necessarie non parole, ma «azioni positive», è l’abbattimento del doppio registro che caratterizza i paesi africani.
Nel 1986 lei ha pubblicato un saggio che ha avuto molta risonanza, Decolonising the Mind. A distanza di venticinque anni pensa che quella «decolonizzazione della mente» di cui lei parlava sia avvenuta?
Più che di un risultato raggiunto, parlerei di una lotta che continua, in tanti paesi del mondo. Il fatto che il mio libro abbia avuto e continui ad avere diffusione in luoghi diversi fra loro, dagli Stati Uniti all’India, alla Nuova Zelanda, può servire a dimostrare che si tratta di un tema molto sentito, nonostante i – o a causa dei – sommovimenti dell’ultimo quarto di secolo. In fondo la globalizzazione non è un fenomeno di oggi, è l’effetto dell’accumulazione del capitale, e non c’è capitale che non abbia una componente di stampo coloniale: un tempo poteva essere la schiavitù, oggi quella che, appunto, definiamo globalizzazione.
Eppure in Globalectics lei attribuisce alla globalizzazione anche aspetti potenzialmente positivi.
È vero, si tratta di un fenomeno che si può guardare da una diversa angolazione: da un lato c’è l’accumulazione del capitale, lo sfruttamento, l’accentuazione delle diseguaglianze; dall’altro la consapevolezza del reciproco impatto che il «qui» e il «là » possono avere nel momento in cui sai che il «qui» può essere ovunque, Italia o Kenya, e che lo stesso vale per il «là ». Allora puoi guardare alla letteratura africana in una dimensione davvero globale.
Secondo lei è possibile parlare di «una» letteratura africana, tenendo conto della varietà  di culture e di lingue in cui si articola il continente?
Quando parlo di letteratura africana, mi riferisco – come è ovvio – alla letteratura scritta nelle varie lingue africane, che considero distinta rispetto alla letteratura africana «eurofona». Eppure l’una e l’altra, per quanto non sovrapponibili e, al loro interno, tutt’altro che omogenee, hanno un tratto che le accomuna, ed è la forte impronta della cultura orale, che riesce a farsi sentire anche nei testi composti in inglese, in francese o in portoghese. Per questo già  da alcuni decenni a proposito della letteratura africana nel suo complesso si parla spesso di oratura.
Un termine che si attaglia bene a Sogni in tempo di guerra, dove la ricostruzione della sua infanzia riecheggia, pur nella sua precisione, le narrazioni che, da bambino, amava ascoltare nella capanna della moglie più anziana di suo padre. In quale lingua ha composto questo libro ai confini tra autobiografia e fiction?
Ho scritto Sogni in tempo di guerra (come il successivo In the House of the Interpreter, che sta per uscire negli Stati Uniti) in inglese, perché comunque rientra nel territorio della prosa esplicativa, mentre a suo tempo ho scelto di riservare il gikuju ai testi narrativi e drammaturgici. Mi rendo conto che per scriverlo ho attinto agli stessi materiali che stanno alla base del mio primo romanzo, Weep Not, Child, ma là  prevalevano gli aspetti immaginativi, mentre qui la ricostruzione del passato è strettamente legata agli avvenimenti storici e alle vicende della mia famiglia. Una ricostruzione che, va detto, non mi ha richiesto particolari ricerche, perché mi sono accorto, scrivendo il libro, che tutti questi fatti erano ancora vivi e vividi nella mia memoria.
Il suo libro si apre con una citazione di Victor Hugo: «Nulla vale più dei sogni per creare l’avvenire». Con che occhi guarda oggi ai suoi sogni di bambino?
Penso che rispetto ad allora le cose sono infinitamente migliorate, se non altro perché quel colonialismo non esiste più. Certo, abbiamo fatto e continuiamo a fare errori colossali, ma sono i nostri errori, e già  questa è una differenza enorme rispetto al passato.


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