Shell costretta a lasciare l’Artico
«La cupola di contenimento a bordo della piattaforma Arctic Challenger è danneggiata», dice il comunicato di Shell Oil. Si tratta della cupola che deve contenere il greggio disperso durante l’estrazione o in caso di guasti e incidenti, uno dei requisiti di sicurezza imposti alle compagnie petrolifere per operare nelle acque polari. Insomma: a causa di questo malfunzionamento, per permettere le necessarie riparazioni, Shell Oil ha deciso di sospendere la perforazione di un pozzo esplorativo nella baia di Chukchi, al largo dell’Alaska.
L’annuncio è importante, anche perché la compagnia anglo-olandese si è messa all’avanguardia di una vera e propria corsa al petrolio in quelle acque polari, regione che descrive come la potenziale seconda fonte di petrolio degli Stati uniti dopo il Golfo del Messico – benché sia una sfida dal punto di vista tecnico, considerate le temperature polari, l’ampiezza delle maree, i banchi di ghiaccio galleggianti.
Negli ultimi sette anni Shell ha messo grandi energie e quasi 5 miliardi di dollari nel suo programma Artico. Ma l’incidente alla bolla di contenimento della Arctic Challenger è solo l’ultimo di una serie di problemi.
Il 9 settembre, appena un giorno dopo aver annunciato che la perforazione era cominciata nella baia di Chukchi (la prima volta da vent’anni che il fondale marino artico americano veniva toccato da una trivella), Shell ha dovuto disconnettere la piattaforma dal pozzo per evitare che rimanesse intrappolata dal ghiaccio. In luglio una delle sue navi da prospezione, Noble Discoverer, aveva rotto gli ormeggi andando alla deriva. Infine il guasto alla bolla di contenimento. Shell sta tuttora aspettando l’autorizzazione finale delle autorità federali Usa per le operazioni esplorative, dopo aver avuto il permesso di procedere ai preliminari (che includono scavare su un fondale a 426 metri; il giacimento si trova oltre 1.200 metri più in basso). Ma già in agosto il capo delle operazioni Shell in Alaska, Pete Slaiby, aveva dichiarato che sarebbe stato difficile completare quel pozzo esplorativo entro l’anno (cioè per l’autunno, prima che il ghiaccio renda impossibile lavorare).
Per Greenpeace, l’annuncio «rende giustizia» ai circa 2 milioni di persone che in tutto il mondo hanno partecipato alla sua campagna Salvare l’Artico (savethearctic.org). Secondo i numerosi ambientalisti americani che si sono battuti contro quel progetto, ritirandosi anzitempo «Shell ammette ciò che noi abbiamo sempre detto: che non si può perforare pozzi in modo sicuro nelle acque artiche», ha commentato Michael Brune, direttore del Sierra Club, una delle più note organizzazioni ambientaliste Usa. Per Ben Ayliffe, di Greenpeace, «finalmente è chiaro che monumentale azzardo sia . La compagnia ne ha cavato solo una serie quasi farsesca di problemi di sicurezza. Gli investitori ora si chiederanno se valeva davvero la pena di mettere tanti soldi per cercar di sfruttare il fragile mare Artico».
Shell Oil per la verità non ha deposto le armi. Forse proprio per rassicurare i suoi investitori, nel suo comunicato dice che sospendere le operazioni ora serve a «gettare solide basi» per riprendere nel 2013. Nel frattempo userà il resto del tempo utile per scavate i buchi preliminari (top holes) che poi ricoprirà in attesa dei permessi definitivi. Insomma, la partita resta aperta. Ma il fallimento di Shell per ora significa una bella battuta d’arresto nella grande corsa a scavare il mare Artico.
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