by Sergio Segio | 26 Settembre 2012 8:55
L’andamento dell’inflazione è molto più veloce della dinamica salariale (circa -5% in appena sette anni). Pesa il mancato rinnovo dei contratti nazionali e una condizione di ricattabilità progressiva per tutti i settori del mondo del lavoro I numeri sono un problema. Anche per «professori» dotati delle competenze «tecniche» per manipolarli. I numeri dell’Istat sono i più scomodi, perché la metodologia è di standard europeo e il nostro istituto ha giustamente una fama internazionale superiore alla media.
Cosa dicono di scomodo, stavolta? Che le retribuzioni stanno crollando. Senza se e senza ma. E che se non ci sarà il rinnovo dei contratti – come già chiesto dalle imprese e quasi assicurato dal governo – scenderanno in modo drammatico. «Alla fine di agosto l’indice delle retribuzioni orarie cresce dello 0,1% rispetto al mese precedente e dell’1,6% rispetto ad agosto 2011». Assai meno del tasso di inflazione. Ma il primo aspetto su cui si concentrano le stime del rapporto è la tendenza per i prossimi mesi.
I contratti nazionali in vigore, in questo momento, coprono il 90% del settore privato. Ma quasi la metà scade a dicembre. In assenza di rinnovo la percentuale scenderà al 47,9%. La conseguenza sui salari sarà drastica: nel «semestre settembre 2012-febbraio 2013, in assenza di rinnovi» la crescita delle retribuzioni passerebbe dall’1,5% attuale a un misero 0,9%.
La tendenza è chiara già da tempo. «L’attesa del rinnovo per i lavoratori con contratto scaduto» è passata da una media di 20,4 mesi nell’agosto del 2011 ai 32,1 attuali. In pratica, quasi nessun contratto è stato rinnovato, Le poche eccezioni riguardano poche categorie e, quel che più conta, poco numerose. Un blocco di fatto che ora, nelle parole dello stesso premier, Mario Monti diventa una richiesta (un ordine?) di blocco salariale per i contratti a venire. E questo senza considera l’intero settore del pubblico impiego, in cui i rinnovi sono stati cancellati da anni.
Ma quanto pesa questa gelata retributiva sul potere d’acquisto delle famiglie? Com’è noto l’Istat rilascia anche i dati relativi all’inflazione. Ci sono vari indici, da quello «generale» ad altri che tengono conto o escludono alcune voci. Quello più utile nel tema che stiamo affrontando sembra essere quello relativo ai «prezzi al consumo delle famiglie di operai e impiegati», le categorie più interessate al rinnovo dei contratti e quindi anche al relativo aumento ssalariale.
Il raffronto tra andamento dei prezzi e degli stipendi è impietoso. Prendendo, come fa l’Istat, a riferimento i livelli salariali del 2005, fatti pari a 100 – ricordando che già ai tempi le statistiche parlavano di un trasferimento di reddito netto pari al 10% del Pil, nel corso di un ventennio, dal lavoro verso profitti e rendite – abbiamo che le retribuzioni da allora ad oggi sono cresciute in termini monetari fino a 117,7 punti. Mentre per i prezzi al consumo c’èstata un’autentica esplosione: i 100 punti del 1995 erano diventati del 2005 all’incirca 126; salendo poi a 139,7 nel dicembre 2010. A quella data c’è stato un aggiornamento che ha portato nuovamente a 100 il livello base, che ad agosto 2012 è già arrivato a 106,6.
Vi sembra complicato? Un po’, ma non molto. A spanne, l’aumento registrato dai prezzi dal 2005 ad oggi è oltre il 22% (ricordiamo che si tratta di un «tasso composto», come quello dei mutui, che sale in proporzione superiore a quella solo artimetica), mentre la dinamica salariale è stata appena del 17,7%. Naturalmente, ricordiamo, ciò non vale per l’intero settore pubblico, che ha il salario bloccato dal 2006, con un solo «adeguamento» – nel 2008 – di ben 13 euro. Lordi, naturalmente. Nello stesso lasso di tempo l’inflazione è corsa di circa il 20%.
La divaricazione tra retribuzioni e prezzi è dunque evidente. Ma la prospettiva è più preoccupante delle perdite già maturate, perché sta subendo un’accelerazione. Che il governo della «troika» vuol dilatare al massimo. Si chiama «deflazione interna», si vive come impoverimento.
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