Roversi IL PANE DELLA POESIA
Roberto Roversi non ha fatto altro che dividere il pane della parola e della poesia nel corso di una vita lunga e operosa, la cui sola metafisica consisteva nell’ascolto e in una vigile apertura ai suoi interlocutori, innumerevoli e per lo più giovanissimi, sempre accolti con una civiltà che non poteva derogare dal riserbo e dal rigore etico-politico (quasi un misterioso nettare che traduceva la clausura in apertura), sul quale si fondavano la sua intransigenza come la sua totale indipendenza di uomo senza apparente biografia. Una biografia che, prima d’essere deliberatamente inabissata, era stata invece deragliante e precocissima: di famiglia borghese, formatosi tra il Liceo Galvani e i corsi di Storia del Risorgimento all’università con la generazione cosiddetta fascistissima, ventenne, nel ’43, aveva disertato i bandi sciagurati di Salò per salire in montagna fra i partigiani di Ferruccio Parri: il 25 aprile ad Avigliana, in Piemonte (cui allude in uno dei suoi poemetti più belli, Il Tedesco Imperatore ), equivale per lui al compimento esistenziale che gli impone, d’ora in poi, tanto l’austerità del riserbo quanto la responsabilità di una parola che valga solo in quanto condivisa, cioè di ognuno e di tutti. Roversi è stato in effetti un diorama artistico e intellettuale dalla cui complessità è difficile oggi, anzi è temerario, stralciare per isolarne un tratto che non rischi di mettere in ombra gli altri compresenti. Si potrebbe dire sia stato uno scrittore tout court , nell’accezione classica e militante, o meglio un «autore» secondo l’etimologia che connette questo termine a un universo di complessità e, insieme, di generosità che chiunque l’abbia conosciuto o sia andato solo una volta a trovarlo ha subito sentito come unica e, presto, leggendaria. Molte cose è stato Roversi: libraio antiquario alla «Palmaverde» nella sua Bologna (per un buon mezzo secolo di attività con sua moglie Elena, tra via Rizzoli, via Caduti di Cefalonia, via Castiglione, infine nel sito emblematico di via dei Poeti dove dicono ci fosse la mescita di vino frequentata da Dante e Cavalcanti); autore di romanzi in cui irrompe e si oggettiva il presente come storia (da Caccia all’uomo , 1959, a Registrazione di eventi , ’64, e I diecimila cavalli , ’76); firmatario di testi per il teatro ( Unterdenlinden , ’65, Il crack , 69, Enzo Re , ’98), autore di canzoni (e qui basti pensare alla collaborazione celeberrima con Lucio Dalla e alla trilogia anni settanta di Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa, Automobili, o a uno splendido cameo, Chiedi chi erano i Beatles , che ha avuto molti esecutori fra cui, da lui prediletti, gli Stadio di Gaetano Curreri); scrittore di partiture per il cinema (e fra tutte, quella scritta su Bologna nel ’75 per un cineasta fuoriclasse quale Carlo Di Carlo); promotore di riviste centrali nel dibattito culturale e politico, da «Officina», tra il ’55 e il ’59, fondata con alcuni amici di sempre (Pier Paolo Pasolini, Francesco Leonetti, Gianni Scalia, Angelo Romanò, Franco Fortini), a «Rendiconti», gestita in proprio fin dal ’61, per arrivare ai fogli bolognesi dei decenni recenti, scanditi nel segno di una militanza poetica di base tanto capillare quanto clandestina rispetto ai palinsesti dell’industria culturale; firmatario di interventi critici e di libere proposizioni affidate a quotidiani e riviste («l’Unità », «Lotta continua», «Quaderni piacentini», lo stesso «manifesto»); infine, a cadenza, raffinato editore con il logo della «Palmaverde» di testi eruditi, storici e filologici, nonché di alcune opere poetiche di grande rilievo, da La poesia delle rose (’63) di Franco Fortini a I Provenzali , voltati in italiano nel ’59 da un altro suo amico troppo presto perduto, Giuseppe Guglielmi. (Né va qui dimenticata, l’impronta roversiana su Pendragon, l’editrice bolognese di suo nipote e allievo Antonio Bagnoli che meritoriamente in questi anni non solo ha riproposto l’anastatica di «Officina» ma anche i suoi testi più introvabili per giusto contrappasso a una bibliografia critica sempre troppo avara, se si eccettuano gli storici contributi di Gian Carlo Ferretti e, da ultimo, la bella monografia di Fabio Moliterni, Roberto Roversi. Un’idea di letteratura , Edizioni dal Sud 2003). Tuttavia Roversi, in primo luogo, è stato un poeta, uno dei maggiori e più originali del nostro tempo. La poesia è il centro pulsante del suo diorama artistico e intellettuale perché tutto procede da quel nucleo riposto e bruciante mentre tutto e sempre fatalmente vi ritorna, in un ciclo che il lettore percepisce alla stregua di una di una necessaria osmosi: è un centro, un nucleo, ma si dovrebbe dire un fuoco del disamore e dell’indignazione per lo stato di cose presenti che viene diramandosi nelle spire di un poema e dunque nella vicenda ininterrotta della conoscenza di sé tramite i conflitti squadernati nel mondo, o viceversa, dalle plaquettes giovanili uscite dall’antiquaria bolognese Landi, ai libri della maturità ( Dopo Campoformio , ’62, e, passate a un ciclostile che divenne mitico per i giovani del Movimento, Le descrizioni in atto , poi in Tre poesie e alcune prose. Testi 1959-2004 , a cura di Marco Giovenale, edite nel 2008 da Luca Sossella, un altro dei suoi allievi) fino alle pluridecennali tranches che confluiscono nel grande costrutto intitolato L’Italia sepolta sotto la neve (AER Edizioni 2010). È una forma testuale, la sua, che esige piena integrità da parte del lettore in quanto ne richiama, volta a volta, sensi, cervello e cuore pure se ciò non equivale mai a una richiesta di complicità ma a una piena partecipazione psicofisica. Per questo maestri e consanguinei di Roversi si profilano in retrospettiva non solo gli interlocutori di lungo periodo (da Elio Vittorini e Giorgio Bassani a Tonino Guerra, Italo Calvino e Leonardo Sciascia) ma i classici che ha più amato e meditato, da Tommaso Campanella e Giordano Bruno a Clemente Rebora e Piero Jahier o, nella Weltliteratur , Bertolt Brecht e Paul Eluard, il cui titolo maggiore, Poésie ininterrompue , sembra scritto infatti da Roversi o apposta per Roversi. D’altronde a chi ha avuto la fortuna e il privilegio di incontrarlo fra gli scaffali della «Palmaverde», Roversi ha sempre dato volta a volta qualcosa di essenziale, fosse solo una parola, un moto di brusca inquietudine o di franco, non meno salutare, dissenso: per restare ai poeti, fra gli altri ne era ben consapevole Giuliano Mesa, come lo sanno Nicola Muschitiello e Giancarlo Sissa, Franco Buffoni, Mino Petazzini e il più giovane Davide Nota, come lo sa Gianni D’Elia, il poeta che gli ha dedicato nei decenni una attenzione e una riconoscenza senza eguali. Uno degli amici di sempre, Pier Paolo Pasolini, aveva scritto nei Versi sottili come righe di pioggia il proprio testamento sempre rammentato, alla maniera di una insegna comune, dall’altro che col tempo sarebbe divenuto per lui un fratello, Gianni Scalia: «Parla, qui, un misero e impotente Socrate/ che sa pensare e non filosofare». In un simile ritratto chiunque riconosce il suo volto e ritrova il senso dell’ascolto che Roberto Roversi ha saputo donargli. Nient’altro che il pane spartito, e fraterno, della poesia.
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