Quelle fiction dell’orrore che non destano attenzione

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Una cittadinanza globale che risponda all’ipocrisia dei conflitti armati umanitari che esportano la democrazia La guerra è ridotta a uno spettacolo che suscita assuefazione. Solo raramente provoca risposte pacifiste Dopo il saggio di soli due anni fa, Le nostre guerre (manifestolibri), Alessandro Dal Lago, come un investigatore infaticabile, torna sul luogo del delitto più grande, la guerra, con un testo tra i più originali «Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltà » (Raffaello Cortina Editore, pp. 220, euro 13,50). Un saggio che definisce la nuova antropologia dell’evento bellico, storicizzandone una funzione decisiva: quella dello spettatore. Vale a dire quella funzione generale e diffusa nella società  di massa che da tempo si è fatta spettacolo e che da tempo vive la condizione passivizzata del mondo fornito dentro casa grazie alla televisione, insieme alla nuova spettacolarizzazione privata garantita in particolare dalle nuove attitudini del web. Nell’equazione: più produzione di immagini – per esempio, le decine di migliaia di film sulla guerra americana in Vietnam – più fraintendimento di senso. Ognuno di quei film può essere stato certo motore della protesta pacifista ma allo stesso tempo anche un vademecum per arruolarsi nei nuovi eserciti nazionali, professionali o in quelli privati dei contractors.
La rinnovata indagine trae spunto dall’evidenza tragica, ormai inarrestabile del ricorso alla guerra. Argomento che via via ha definito la sua «invisibilità », perdendo perfino la sua raccontabilità  letteraria. Il libro, da quasto punto di vista, propone un prezioso attraversamento della letteratura basata sulla partecipazione alla battaglia come prova individuale – dalla «Certosa di Parma» di Stendhal a Tolstoj, da Dostoievskij a Zola, dai «Pilastri della saggezza» di Thomas E. Lawrence fino al Nudo e il morto di Mailer. In un attraversamento che mostra come, per un secolo e mezzo la letteratura abbia, via via, a sostanzialmente rinunciato ad interrogarsi sulle ragioni della crudeltà  della guerra.
Una rimozione globale
Perduta così ormai ogni ipotesi di sistemazione retorica sia in un’ottica patriottica o di difesa di interessi nazionali o, all’opposto, pacifista, la guerra sembra avere sopravanzato l’enunciato di Von Clausewitz che la voleva «continuazione della politica con altri mezzi», per essere uno strumento diretto della politica. Che per perpetrare i conflitti armati si avvale dello stesso linguaggio elusorio del potere. Al punto che, come l’ultima contro la Libia – su questa Dal Lago insiste – essa di fatto non c’è stata, nonostante che almeno quattro paesi, Francia, Gran Bretagna e Stati uniti, compresa l’Italia che all’ultimo momento vi ha aderito, abbiamo scaricato tonnellate di bombe su quel paese grazie ad una risoluzione Onu che comprendeva, senza limiti di tempo, una no-fly zone l’intervento armato per «proteggere i civili» messi in pericolo dalle azioni armate del regime di Gheddafi.
Alla fine solo l’intervento armato della Nato dall’alto dei cieli ha permesso la vittoria delle milizie insorte contro Gheddafi (con i risultati «sorprendenti» degli eventi di Bengasi di questi giorni). Ma per il nostro Presidente della Repubblica, «non c’è stata nessuna guerra dell’Italia», perché nessuna dichiarazione è stata fatta, anzi si é trattato di intervento «umanitario» e quindi, in maniera surreale, non sarebbe stato cancellato quel fondamentale articolo 11 della nostra Costituzione che «ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Nessuna guerra c’è mai stata nei Balcani, in Somalia, in Iraq, e in Afghanistan. Del resto, quale diritto internazionale ha mai assunto la volontà  di denunciare i crimini occidentali di quelle guerre?
Le nuove guerre sono così: democratiche non-guerre. In un vortice di generale rimozione. Così le guerre condizionano il territorio, le scelte produttive, i bilanci dei Paesi, la gestione politica del mondo. Ma semplicemente non esistono. E il loro accadimento appare come naturale e corrispettivo alle malefatte rappresentate del nemico di turno. Grazie all’eccitazione giornalistica del sotto-sistema dell’infowar, vale a dire dell’informazione basata sul conflitto bellico che fa strame della verità . Anche perché questo sottosistema è, prima di tutto, anche una carriera.
Indiffernti alla morte
E questo contribuisce non poco al processo di sostanziale rifiuto di consapevolezza su quanto la nostra «pace» dipenda dalla capacità  di esportare conflitti armati in tutto il mondo solo sulla base della difesa di interessi materiali e della difesa della supremazia occidentale. Conflitti che ormai si caratterizzano per la perdita di vite civili piuttosto che militari, vista la scelta dei bombardieri aerei, dei droni che colpiscono a distanza nell’indistinto territorio nemico, pre-cancellando l’esistenza di esseri umani in carne ed ossa, nome e cognome. Le bare che non vedremo mai sono le loro, non tanto quelle dei soldati Usa che, democraticamente e a differenza di Bush, Obama comincia a mostrare.
Per Alessandro Dal Lago le guerre occidentali sono una voluta e mirata messinscena della morte. Ma non è vero che esse avvengono nella stessa forma compartecipativa dello spettacolo gladiatorio di Roma antica, quando il reality show pretendeva sangue e il trionfo dello spettacolo segnava un legame ancora più profondo tra imperatore e popolo. Nell’epoca della riproducibilità  tecnica della guerra e della crudeltà , in questa «società  dello spettacolo» alla rovescia, perché è il potere internazionale che agisce il suo movimento, l’impresa bellica corrisponde ad una materialisssima pornografia mondiale, compulsiva: scrive Alessandro Dal Lago «ad un immenso peep show collettivo». Ma anche ad una esecuzione capitale sommaria e diffusa, regalata al pubblico metropolitano che riscopre la sua centralità  nella riduzione delle nuove periferie a vittime, il cui numero nei massacri è irrilevante, anzi più è evidente l’esposizione numerica più aumenta il disinteresse. L’enormità  delle stragi infatti provoca solo indifferenza e afasia. Una messinscena dalla quale noi abbiamo imparato non solo a volgere lo sguardo ma a misconoscere del tutto. Facendo finta – in una fiction introspettiva e quotidiana che ci permette di sopravvivere – che l’orrore e la crudeltà  semplicemente non esistano se non quando, come per l’11 Settembre 2001, ricadono su di noi. E soprattutto non ne siamo responsabili. Senza più consapevolezza o riprovazione, il supplizio della crudeltà  da discreto, come voleva l’illuminismo dopo la scoperta della nefasta morbosità , se non eroticità , delle esecuzioni capitali – la guerra è diventata un’ombra criminale sullo sfondo. Siamo alla scena della Descrizione di una battaglia di Franz Kafka: «Spesso qualcuno cade in strada, rimane a terra morto. Allora i negozianti aprono le porte delle loro botteghe cariche di merci, escono fuori, sorridono con le labbra e con gli occhi. Buon giorno, il cielo è coperto. Vendo molti fazzoletti. Sì la guerra».
L’unica vera alternativa è coniugare l’orrore, chiamare la crudeltà  con il suo nome, dissolvere l’ipocrisia dell’«umanitarismo e dell’esportazione della democrazia». Scrive in conclusione Alessandro Dal Lago: se a definire la condizione degli abitanti dell’Occidente è la passività , «essere coscienti che da qualche parte del mondo si uccide in nostro nome è il primo passo per riconquistare una cittadinanza perduta nel mondo dei conflitti globali».


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