Quell’accordo tra l’ad e gli Agnelli non toccare i 20 miliardi di liquidità 

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Il ceo di Fiat e Chrysler dovrà  spiegare se e come intende recuperare Fabbrica Italia, parte di essa, o creare un’alternativa e con quali mezzi finanziari, che non siano solo i proventi del buon andamento del mercato americano, di quello brasiliano e con qualcos’altro. Se è vero che il governo, nel tenere separate le responsabilità  sue da quelle dell’azienda in questa vicenda, non ha alcuna intenzione di mettere mano al portafoglio, il che sarebbe peraltro difficile quasi quanto lo è per la Fiat, il problema resta quello del Lingotto di trovare l’ossigeno necessario per resistere e superare la crisi.
La Fiat ha 20 miliardi circa di liquidità , una cifra che supera di 5 miliardi la sua capitalizzazione ed è pari a quella che si era impegnata a investire con Fabbrica Italia.
«Con 20 miliardi di liquidità  non si spiega come mai la Fiat non abbia trovato il modo di utilizzare una parte per dotarsi di nuovi modelli, evitando di scontare il ritardo accumulato su questo fronte in termini di perdita di quote di mercato» osserva un analista che segue il Lingotto. E aggiunge: «Ancor più inspiegabile è la scelta di mettere in discussione gli accordi presi con le parti sociali, una mossa che accresce i sospetti già  largamente diffusi circa le intenzioni della Fiat di lasciare Torino e l’Italia». Il tutto, mentre le generiche rassicurazioni del presidente John Elkann, sulla «assoluta sintonia» con Marchionne e sulla «fiducia nel futuro del gruppo» fanno pensare a quello che un ex alto dirigente di Fiat ha definito impietosamente «un patto scellerato » tra il ceo del Lingotto e gli Agnelli.
Perché allora Marchionne ha scelto di spingere sul pedale del freno bloccando gli investimenti per nuovi modelli? La spiegazione che viene sussurrata da banchieri e analisti ma non tanto da non essere percepita all’esterno del loro mondo è che il ceo di Fiat e Chrysler non intende attingere alla liquidità  perché avendo fatto ricorso al mercato obbligazionario con l’emissione massiccia e ripetuta di bond sa di doversi tenere coperto in vista delle scadenze. Al 30 giugno scorso Fiat spa aveva collocato complessivamente bond per 13 miliardi di euro più altri 600 milioni annunciati a metà  luglio con un rendimento in quest’ultimo caso del 7,75 per cento che aveva sorpreso gli operatori. Da navigato uomo di finanza Marchionne sa che i bond alla scadenza devono essere coperti, non essendo rifinanziabili, e comportando in caso contrario la perdita di quote di capitale.
Naturalmente questa sua strategia mette al riparo la famiglia Agnelli dal rischio di veder messo in discussione il controllo del gruppo. Anche se questo può voler dire la rinuncia a un piano di rilancio dell’azienda in Italia e il suo posizionamento sempre più marcato in terra americana. In quell’area cioè dalla quale Marchionne pensa di poter dirottare al momento da lui giudicato opportuno risorse per il rilancio italiano e che conferma quando ripete «manterrò Fiat in Italia con i guadagni fatti all’estero ». Una mossa questa che, così come stanno oggi le cose, non è poi automatica come si vuole far credere. Perché un conto è utilizzare parte dei risultati operativi realizzati in Brasile (473 milioni) e un altro e pensare di mettere mano all’1,42 miliardi realizzati da Chrysler i quali contribuiscono sì a rafforzare il consolidato Fiat ma non possono essere utilizzati sul fronte italiano ed europeo. Almeno fino a quando la società  americana non pagherà  dividendi e il Lingotto non avrà  raggiunto una quota vicina all’80 per cento del suo capitale.
Un percorso quest’ultimo che Marchionne conta di seguire e in parte lo sta facendo col progressivo recupero di quel 48,5 per cento ancora in mano a Veba, il fondo del sindacato Uaw. Ciò vuol dire che per il momento Marchionne dovrà  fare conto soltanto su ciò che trova in cassa a Torino. E che con i risultati di mercato sin qui registrati e quelli previsti per i prossimi mesi non è proprio una garanzia. Ma la liquidità , quella a differenza dei nuovi modelli, c’è.

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In vendita il Lingotto di Torino: Ipi chiede 200 milioni    

 Il Lingotto torna in vendita. L’Ipi ha messo sul mercato le sue proprietà  nel complesso multifuzionale dove, sino al 1982, ha operato la storica fabbrica Fiat. Su quei terreni sono stati prodotti modelli come la Topolino, la Balilla e la Torpedo. La società  immobiliare della famiglia Segre punta a cedere due alberghi, 45mila metri quadri di uffici e magazzini, 167 metri quadri di parcheggi, la pista di atterraggio per gli elicotteri, il ristorante La Pista e la “Bolla”, sala riunioni panoramica disegnata da Renzo Piano.
Gli immobili sono iscritti a bilancio per 121 milioni di euro, ma l’Ipi conta di ricavare dalla vendita tra i 150 e i 200 milioni. Non finisce sul mercato invece la palazzina direzionale della Fiat, che non è proprietà  dell’immobiliare.
Il complesso del Lingotto fu progettato e costruito a partire dal 1915. L’inaugurazione avvenne nel 1922 ed è stato uno dei principali stabilimenti della casa automobilistica torinese. L’ultimo modello ad uscire dai suoi capannoni è stato la Lancia Delta. Poi, la conversione. I suoi edifici, i cui esterni sono rimasti in larga parte immutati, sono stati adibiti ad attività  del settore terziario, ad abitazioni e ad alberghi. Il complesso comprende anche un centro congressi, un auditorium e il centro esposizioni che ospita la Fiera internazionale del Libro.
L’Ipi è diventata proprietaria degli immobili nel 2009, dopo diversi passaggi di mano che, dal 2003, hanno visto succedersi nel controllo del Lingotto i “furbetti del quartierino” Luigi Zunino e Danilo Coppola, due dei protagonisti dello scandalo Antonveneta.


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