Quella disciplina imposta dalle lancette del cronometro

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La rivista «History Workshop on line» si ripromette di festeggiare da qui a pochi mesi un importante anniversario: i cinquant’anni di The Making of English Working Class, uno dei testi fondamentali di storiografia del movimento operaio, pubblicato da Edward P. Thompson agli inizi del 1963. Al libro, tradotto in italiano per la prima volta nel 1969 da Bruno Maffi e uscito per Il saggiatore con il titolo di Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, fu riservato, almeno in Gran Bretagna, lo stesso destino di Proletariato e industria culturale (1957) di Richard Hoggart e di Cultura e rivoluzione industriale (1958) di Raymond Williams: quello di non essere solo un semplice libro di settore (storico in questo caso, letterario negli altri due) ma punto di riferimento per la classe operaia inglese e origine di quel nuovo modo di fare teoria sociale oggi chiamati cultural studies. Molto probabilmente la nostra cultura rimarrà  estranea e indifferente a questo tipo di iniziativa non solo perché Thompson non è al centro del nostro dibattito, ma soprattutto perché il libro «festeggiato» non è mai più stato ripubblicato dal 1969. Da questo punto di vista, appare davvero lodevole lo sforzo della casa editrice et al. di rendere disponibili almeno dei saggi brevi del pensatore inglese, certo non rappresentativi della grande opera del 1963, ma in grado di restituirne in ogni caso il senso complessivo del progetto. Nel 2009 è stato pubblicato L’economia delle classi popolari inglesi nel secolo XVIII e recentemente Tempo e disciplina del lavoro. Entrambi i saggi provengono dalla raccolta einaudiana Società  patrizia, società  plebea del 1981. L’arrivo del cronometro Dei due brevi saggi thompsoniani, sicuramente quello sul tempo e la disciplina del lavoro merita una particolare attenzione soprattutto grazie all’importante lavoro introduttivo svolto da Giovanna Procacci che ne attualizza la portata teorica rispetto all’odierna situazione del mercato lavorativo. Il saggio, il cui titolo per esteso è Tempo, disciplina del lavoro e capitalismo industriale, fu pubblicato per la prima volta sulla rivista «Past&Present» nel 1967. Possiamo disporre l’argomento principale, il tempo sul luogo di lavoro, lungo tre linee interpretative: una storica, una psicologica e una politica. La storia. In realtà , dice Thompson, fino a quando nella manifattura l’attività  produttiva era ancora gestita a livello familiare o artigianale, il tempo di lavoro non era per nulla disciplinato, si legava in massima parte ai compiti a svolgere, non veniva misurato in modo meccanico-cronometrico, dipendeva ancora da una sorta di ritmo naturale: «i minatori di stagno della Cornovaglia si occupavano pure della pesca di sardine (…) gli artigiani di villaggio si dedicavano a diversi lavori nell’edilizia, nei trasporti, nella falegnameria (…) il piccolo agricoltore dei monti Pennini contemporaneamente faceva il tessitore». A giornata, a settimane, stagionale, misto il lavoro non aveva ancora un suo orario e gli operai alternavano periodi di attività  a periodi di inattività . Tutto cambia con l’impiego delle macchine, con la trasformazione della manifattura da artigiano-familiare a grande industria: è qui che il tempo comincia a essere calcolato. Si sincronizzano i movimenti corporei, si regolano con maggiore precisione i ritmi orari, si esige puntualità . La situazione è completamente diversa da quella precedente, il tempo di lavoro da discontinuo è diventato continuo, da irregolare regolare, da indisciplinato disciplinato. I sermoni dei puritani La psicologia. Per quanto Thompson sia interessato al modo storico di cambiamento del tempo di lavoro, per lui è come se questa trasformazione non fosse completa se non arriva ad interiorizzarsi nella coscienza dei lavoratori. Il problema da esterno (storico) si fa interno (psicologico). A questo punto interviene la propaganda religiosa a dare una mano al nascente capitalismo industriale per far sì che la nuova disciplina del tempo di lavoro venga interiorizzata dalla classe operaia. I contenuti puritani delle prediche si concentrano sulla necessità  di non perdere tempo in attività  oziose e di impiegarlo principalmente per lavorare. Infine, la politica. Il discorso di Thompson non si esaurisce né nella dimensione storica né in quella psicologica, i risultati conseguiti da queste indagini hanno senso solo se arrivano a configurarsi in una teoria sociale compiuta. Mostrare come storicamente il tempo di lavoro sia stato disciplinato dalla grande industria e interiorizzato dalla classe operaia tramite l’attività  propagandistica della predicazione puritana serve a dimostrare che con il capitalismo industriale si arriva ad una «ristrutturazione radicale della natura sociale dell’uomo». Con il disciplinamento del tempo di lavoro e la sua interiorizzazione quello che cambia non è qualcosa che riguarda solo il ciclo produttivo industriale, ma l’intero sistema di vita moderno. È per questo che molto probabilmente fin dall’inizio del processo la classe operaia si oppose e lottò: «Nella prima fase troviamo solo una semplice resistenza, ma nella fase successiva, allorché viene imposta la nuova disciplina del tempo, gli operai iniziano a combattere, non contro il tempo, ma intorno ad esse (…) La prima generazione di operai di fabbrica era stata istruita dai padroni sul valore del tempo; la seconda generazione formò le sue commissioni per la riduzione d’orario nell’ambito del movimento delle dieci ore; la terza scioperò per lo straordinario come tempo maggiorato del 50 per cento. Gli operai avevano accettato le categorie dei loro padroni e avevano imparato a lottare all’interno di esse». Ora, per quanto basterebbero queste tre linee guida (storica, psicologia e politica) a decretare l’importanza del saggio di Thompson, in realtà  il suo significato più profondo sta in un altro tipo di problema con cui lo storico inglese si confronta nelle pagine conclusive. A ben vedere, la riflessione sul disciplinamento del tempo di lavoro, segue uno schema sociologico molto classico: da una situazione di disordine iniziale (ritmi naturali di lavoro) si passa, in forza della razionalità  indotta dai processi di produzione industriale, ad un ordine sempre maggiore (orari di lavoro controllati), ordine che viene assunto dalla coscienza come unico possibile per il bene della collettività  (interiorizzazione). Per quanto importante, non risieda in questo schema la novità  di Tempo e disciplina del lavoro. Chiudendo il suo saggio Thompson arriva a confrontarsi con uno dei problemi che distinguono le società  a capitalismo avanzato: il «tempo libero delle masse». È su questo terreno che viene avanzata la proposta più interessante. Fin quando le masse e le classi continueranno a consumare produttivamente ogni istante di tempo libero non usciranno mai dall’etica puritana del disciplinamento che prescrive loro di non sprecare mai ogni unità  temporale a loro disposizione. L’emancipazione da questo modello si avrà  quando riusciranno a «vivere questo tempo senza direttive», quando lo passeranno «in modo non produttivo». Improduttivo è bello Al fine di cogliere la portata rivoluzionaria di questa riflessione bisogna passare sopra al latente anti-modernismo che l’avvolge e in cui rischia di precipitare soprattutto quando Thompson attacca le industrie culturali che sfruttano il tempo libero e quando propone come forme alternative di vita quelle basate su relazioni inter-umane più intense. La cosa da tenere presente è che questo tempo libero improduttivo viene pensato come strategia di opposizione da viversi all’interno del rapporto più generale capitale-lavoro. Dal momento che l’improduttività  non è contemplata dall’etica della produzione, è come se Thompson, per superare il sistema di valori decretato dalla borghesia, invitasse la società  plebea del lavoro a fare suo uno dei valori della società  patrizia e, come l’aristocrazia, a prendersi il lusso di sprecare gioiosamente il tempo non facendo niente. La lotta di classe diventa un combattimento per la conquista di valori. Come insegnava la Prefazione a The Making of English Working Class, è una questione di cultura più che di determinante economica.


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