QUEL GRIDO CHE ARRIVA DAL SILOS DELL’ALCOA

by Sergio Segio | 7 Settembre 2012 4:52

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Si fa fatica a ricordare perfino quello stripteasealla Full Monty di operai Alcoa che inaugurò il carnevale di Venezia del 2009. Eppure ce l’avevano messa tutta a ballare uno spogliarello con tanto di slip e di elmetti da metalmeccanico. Il problema nostro è che c’è una distrazione invincibile che tutti ci coglie davanti a quello che è il dramma più serio e più terribile del-l’Italia di oggi: l’assenza del lavoro. Si pensi a come sia normale fare proiezioni pre-elettorali senza interrogarsi più che tanto sul numero nero dei non partecipanti al gioco: che non è il frutto dell’antipolitica, quella parola che è solo la sigla della nostra ignoranza, l’hic sunt leones delle mappe del presente. È la semplice, inevitabile trascrizione nel funzionamento di una moderna democrazia della divisione del nostro tempo tra chi attraverso il lavoro esercita la sua cittadinanza e chi resta prigioniero del nulla e non può, semplicemente non può nutrire interesse per l’agitarsi e il gridare dei fantasmi politici sullo schermo di casa.
Statistiche continuamente aggiornate ci dicono che una parte crescente della società  italiana non ha mai vissuto l’esperienza del lavoro. Eppure è quello il momento fondamentale della crescita civile, quando si apre la porta di casa e si entra nella società  perché lì c’è qualcosa che ti viene chiesto di fare. Per chi il lavoro lo ha avuto e lo perde, è anche peggio: è il taglio del cordone ombelicale che unisce un individuo agli altri, la sentenza capitale su tutto il tempo che sarà  la sua vita. La generazione anziana, quella che ha avuto il lavoro e magari anche la pensione, non può capire sul serio quello che sta accadendo: non ne ha i parametri. Lo si vede dalle parole che girano tra quelli che governano: “bamboccioni”, “cittadini a metà ”, “generazione spazzata via”, spazzatura umana, prodotti fallati della fabbrica umana. Ed è dubbio che lo capiscano i poteri politici ed economici, dove la recessione è vissuta col fatalismo con cui si reagisce a un terremoto o a un uragano. Basta leggere le cronache del convegno “Jobs for Europe” in corso a Bruxelles. Lì ha parlato anche il nostro ministro Elsa Fornero, la responsabile della riforma del lavoro che è diventata legge, l’autrice di quella frase che è apparsa molto irritante ma che ha avuto il merito di adeguare il linguaggio alla realtà  che viviamo. Ma non è facile parlare la nuova lingua. Qualcuno ha provato ad aggiornare la solenne frase della Costituzione sostituendola con quest’altra: “Il lavoro è un bene comune”. Ma non funziona. In un tempo come il nostro si fa fatica a difendere la proprietà  comune dell’aria e dell’acqua, figuriamoci il lavoro. E comunque l’aria che si respira a Taranto, quella che si è respirata all’Eternit di Casale Monferrato, quella delle miniere sarde è una maledizione, non un bene. Forse era questo che intendeva Elsa Fornero quando aveva detto: «Noi stiamo cercando di proteggere gli individui non i loro posti di lavoro».
Eppure, la sua stessa, molto discussa, riforma ha mostrato che qualcosa si può cambiare: per esempio, è stata disarmata la ferocia sociale di quella legge che col licenziamento trasformava l’immigrato in clandestino: l’aveva varata colui che il presidente del Consiglio Monti suole definire pudicamente «il mio predecessore». E al convegno di Bruxelles la ministra ha detto che è l’ora di prestare attenzione alle politiche di sostegno dell’economia reale piuttosto che insistere sul rigore (nel gioco delle parti ora tocca al ministro Passera pedalare se vuol guadagnarsi un altro giro di bicicletta col futuro governo).
Vedremo se da Bruxelles verranno solo parole o se ne riceveremo qualche idea non preconcetta, liberatoria. Per ora, siamo in guerra, per dirla col presidente del Consiglio Monti: ma è una guerra che non possiamo vincere. Sono in conflitto alternative disperate. Una volta il canto dei lavoratori diceva: “O vivremo di lavoro o pugnando si morrà ”. Oggi l’alternativa è morire di tumore o morire di fame. Il sistema in cui viviamo produce lavoro al prezzo di un’aggressione spaventosa alla natura. E il sistema finanziario prosegue tranquillamente un accumulo di profitti che crea ricchezze megaga-lattiche e povertà  disumane, scommette sulla sussistenza quotidiana di popoli interi, punta sul fallimento della Grecia, sulla trasformazione dell’Europa in un club per pochi dove si potrà  fare a meno delle culture che l’Europa l’hanno creata – quella greca, quella latina. Tutto questo viene vissuto come un decreto immutabile di una scienza economica impassibile, scritta sul bronzo delle porte dell’eternità . Pazienza dunque. L’operaio dell’Alcoa si rassegni: “It’s the economy, stupid!”.
E tuttavia c’è un pensiero inquietante che si affaccia nella mente degli anziani: come fu possibile che al termine della Seconda guerra mondiale un’Europa fatta di paesi distrutti, gravati da debiti mostruosi, dove vincitori e vinti erano ridotti tutti al lumicino, poté ripartire in un grandioso, esaltante processo di ricostruzione che in un decennio appena creò lavoro e condizioni di vita quali non si erano mai viste prima? Perché allora fu possibile cancellare i debiti ai debitori e mobilitare ingenti risorse? Ce lo ricordava di recente un teologo, Franz Hinkelammert, osservando che anche oggi l’indebitamento di certi paesi europei ha raggiunto un livello tale da risultare impagabile. Ma, aggiungeva, «questo è proprio quello che vogliono le banche. I paesi indebitati possono così venire saccheggiati senza la minima possibilità  di difendersi». Ci chiediamo allora se e quando verrà  il giorno in cui la politica cesserà  di essere l’ancella dell’economia finanziaria e riprenderà  la sua funzione antica, quella di arte del possibile.

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