Quei 35 milioni che risparmieremmo facendo lavorare i detenuti

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Nessun Paese accetterebbe che negli ospedali morissero 7 ricoverati su 10 o che nelle scuole fossero bocciati 7 studenti su 10. Invece il carcere vive in Italia una doppia amnesia: non soltanto sullo scandalo di 66.000 detenuti stipati in 45.000 posti (da cui le condanne dell’Italia in Europa), ma ancor più sul fatto che 7 detenuti su 10 tornino poi a delinquere se hanno espiato la loro pena tutta in carcere, mentre soltanto una percentuale tra il 12% e il 19% incorra in questa recidiva se durante la detenzione in carcere ha avuto la possibilità  di fare veri lavori per conto di imprese o cooperative esterne che li assumono grazie agli incentivi fiscali (516 euro di credito d’imposta per ogni detenuto) e contributivi (80% di riduzione) introdotti nel 2000 dalla legge Smuraglia (dal nome del senatore allora promotore della legge).

Solo che dal 2000 la legge è stata rifinanziata sempre con gli stessi soldi: 4,6 milioni l’anno (dunque assottigliati già  solo da inflazione e crisi), stanziamento che al momento consente di entrare in questo circuito lavorativo soltanto a 2.257 detenuti su 66.000. E siccome i soldi per quest’anno arrivavano a malapena ad agosto, i posti di lavoro si sono già  ridotti. In Lombardia, ad esempio, i detenuti impiegati da ditte esterne sono stati nei primi 6 mesi dell’anno 310 contro i 470 del primo semestre 2011; e comincia a dover fare i conti con la situazione anche il caso-pilota di Padova, che oggi sarà  visitato dal ministro della Giustizia Paola Severino e dove i detenuti impiegati dal «Consorzio Rebus» gestiscono il call center delle Asl venete, assemblano valigie di una nota marca, costruiscono 150 bici l’anno, digitalizzano i servizi delle Camere di Commercio, ricevono premi internazionali per il famoso panettone (63.000 confezioni a Natale) culmine della loro pregiata pasticceria.
Nelle carceri va persino peggio all’altra tipologia di lavoro che in teoria dovrebbe essere assicurata a tutti i condannati e che invece solo per 13.961 detenuti ha dato luogo a miniperiodi da «lavoranti» per le necessità  pratiche dentro il carcere come spesini, scopini, scrivani, portavitto, gabellieri, manutentori: lavoro certo meno significativo di quello di chi opera per ditte esterne con ben altre pretese di tempi e standard qualitativi, che dunque non funziona da «ponte» tra la fine della pena e il ritorno nella società , ma che almeno allevia per qualche ora al giorno il sovraffollamento nelle celle, non lascia inattivi i detenuti e offre loro la possibilità  di mettere da parte qualche quattrino (in media 200/300 euro al mese). Ma anche qui le «mercedi» sono ferme al 1994, e il capitolo «Industria» del bilancio della Direzione dell’amministrazione penitenziaria (Dap), con il quale vengono retribuiti i detenuti che lavorano nelle officine gestite dall’amministrazione penitenziaria per arredi e biancherie dei nuovi padiglioni in realizzazione, ha subìto un taglio addirittura del 71% in due anni, in picchiata dagli 11 milioni di euro del 2010 ai 3,1 milioni del 2012.
È un’amnesia sociale ancor più miope se si pensa a tutti gli sterili «allarmi sicurezza» lanciati ad ogni eclatante delitto in questa o quella metropoli. Altro che esercito nelle città : ogni punto percentuale di recidiva che si riuscisse ad abbassare vorrebbe infatti dire quasi 700 ex detenuti restituiti alla società  senza che delinquano più e senza dunque che infliggano ai cittadini i costi dell’insicurezza (persone ferite da curare, risarcimenti, beni rubati o rapinati o danneggiati, costi di polizie-magistrati-cancellieri per riarrestarli e processarli). E vorrebbe anche dire un risparmio secco per lo Stato di 35 milioni di euro l’anno, visto che le stime più sparagnine indicano in 140 euro al giorno il costo del mantenimento di un detenuto.
Per fare un raffronto, il tanto avversato primo provvedimento del ministro Severino, da taluni temuto come «svuotacarceri», nei primi tre mesi di applicazione ha fatto passare dalle celle ai domiciliari appena 312 detenuti e ha impedito che altri 3.000 vi entrassero per una manciata di ore con il noto fenomeno delle «porte girevoli»; e il segmento del piano-carceri in via di attuazione investe 228 milioni di euro per avere entro il 2014 circa 3.800 posti in più nelle carceri tra ristrutturazioni e ampliamenti degli istituti. Sottrarre invece alla recidiva un pari numero di detenuti richiederebbe (a statistiche invariate e in proporzione agli attuali pur avari stanziamenti) una ventina di milioni l’anno, ma solo in costi fissi ne farebbe risparmiare più di 250 allo Stato.
Eppure la proposta di legge bipartisan Angeli-D’Ippolito-Vitale-Farina-Pisicchio, avanzata dall’intergruppo parlamentare per innalzare ad almeno 6 milioni l’anno il rifinanziamento della legge Smuraglia, incrementare a 1.000 euro al mese il credito d’imposta per ogni detenuto assunto, e applicare gli sgravi alle cooperative anche nei 12/24 mesi successivi alla fine della detenzione, stenta a decollare. Come se trovare i soldi per il lavoro in carcere fosse questione solo di buonismo. E non, invece, l’egoistica convenienza di una società  che voglia davvero più sicurezza.


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