by Sergio Segio | 5 Settembre 2012 7:27
ROMA – «La malattia di questo Paese è che tende a dividersi brutalmente, ha una mentalità antagonistica, un bipolarismo conflittuale a tutti i livelli. Carlo Maria Martini, al contrario, non era un uomo di rottura ma di apertura. Non era schierato, la dimensione dei partiti non gli apparteneva, non era il cappellano della sinistra né l’Antipapa. Credo che la complessità della sua vicenda umana ed ecclesiale non sia stata colta da tutti. Aggiungo: ai suoi funerali il Paese poteva essere più rappresentato». Andrea Riccardi, ministro dell’Integrazione e della Cooperazione Internazionale, ha ancora negli occhi la grande e solenne cerimonia di Milano e quella moltitudine di «credenti, non credenti e dubbiosi», come li ha definiti Michele Serra, che si è congedata ferita, dolente, dal cardinale. «Popolo e non massa». Per un Paese in crisi, per un governo, un lascito di speranza per il futuro: «C’è ancora gente che vuole ascoltare, ragionare, parlare di cose alte».
La Chiesa madre, la Chiesa arcigna, il mancato Papa dei laici, il neo-protestante. Ministro, come giudica i cammei dedicati a Martini in queste ore?
«Penso che non farebbero piacere al diretto interessato. Martini è un grande personaggio che ha reintrodotto la Bibbia, la spiritualità , nella cultura nazionale italiana. Un uomo per tutti, di tutti, che, nel suo essere gesuita, non faceva sconti a nessuno. Ma avere opinioni radicate non vuol dire essere per forza divisivi e lui ne è testimonianza».
Avrà notato che ai funerali era praticamente assente il centrodestra (tra le eccezioni Formigoni, Gelmini, ndr).
«C’era anche Gabriele Albertini, l’ex sindaco di Milano, con il quale aveva un rapporto di stima. Ma il Paese poteva essere più rappresentato».
C’è una perenne ansia da schieramento che contamina ogni evento della vita pubblica, non le pare?
«E’ così. Negli ultimi 15 anni ci siamo abituati al conflitto come unica dimensione possibile. Il cardinal Martini era lontano da tutto questo. Ricordo che mi disse: “Chi mi vede come l’Antipapa mi crea solo problemi”. Era un uomo vissuto anni lavorando sulle Scritture scientificamente e anche dal punto di vista spirituale e meditativo. Nominato Arcivescovo di Milano, per volontà del Papa, trovò, lui che non aveva dimestichezza con la vita pubblica e politica, la dimensione del dialogo con la gente, a partire dalla predicazione della parola di Dio. Non era di destra, non era leghista, non era di sinistra. Nella Chiesa di Milano non introdusse rotture. Aveva un sentire diverso da Giovanni Paolo II, da Biffi, da Ruini, ma era obbedientissimo, pur facendo emergere negli ultimi anni un senso di tristezza per una Chiesa che vedeva diversa da come lui la sognava. Mi sembra che in questi giorni la complessità della sua vicenda ecclesiale non sia stata colta».
Delle assenze illustri in Duomo abbiamo parlato, però fuori, sul sagrato, c’era un pezzo variegato di società italiana che ha capito la profondità dell’uomo.
«Sì e questo è molto positivo. Ci angosciamo per la crisi dell’Italia, a volte per la sua deriva etica, eppure c’è anche un Paese che definirei pensoso, l’Italia della gente comune, una società matura che si è fatta incantare da questo prete alto dagli occhi azzurri, da questo gesuita che non era una star, parlava magistralmente, ma con un linguaggio senza enfasi diretto alla mente e al cuore. Un intellettuale raffinato, riservato, capace di intercettare il popolo colloquiando direttamente con le singole persone».
Unire non dividere. Ministro Riccardi, crede che sia possibile invertire la rotta?
«Martini, un grande italiano, direi un “Principe di Dio”, mutuando dalla Bibbia, ci lascia proprio questa lezione: dobbiamo uscire dalla logica antagonistica, privilegiare il dialogo, l’apertura. Dobbiamo capire che la cultura nazionale, senza spirito, è una cultura asfittica».
Quella parte di Paese ostile alle semplificazioni, “pensoso”, come lo chiama lei, è già conquistata da questo modello.
«Sì, i funerali di Martini ci raccontano di un pezzo di Italia matura e questo fa ben sperare».
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