Perfino Pinochet rispettò l’ambasciata

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Sarebbe «inaudito che la Gran Bretagna scegliesse la via di forzare l’ambasciata ecuadoriana», per prendere l’hacker Assange, ma «è un’eventualità  che il governo inglese ha ormai saggiamente escluso». Anche perché «neanche l’esercito del golpista Pinochet, in Cile, decise di violare le residenze diplomatiche che si riempivano di perseguitati politici». Lo racconta l’ambasciatore Emilio Barbarani, del gruppo di formidabili diplomatici guidati da Tomaso de Vergottini che, benché non accreditati (l’Italia non riconobbe il governo nato dal golpe cileno dell’11 settembre 1973), salvarono oltre 700 persone accogliendole nell’ambasciata di Santiago, in Calle Miguel Claro. Un’esperienza che Barbarani racconta nel libro Chi ha ucciso Lumi Videla (Mursia). Quella di Assange nell’ambasciata si avvia a essere una permanenza lunga. Come quelle che ospitaste voi a Santiago, dopo il golpe del ’73. Lei come entrò in quella vicenda? Arrivai a Santiago nel dicembre ’74, dopo la morte della giovane Lumi Videla, alta dirigente del Mir, il Movimiento de izquierda revolucionaria. Il suo corpo era stato lanciato nel parco dell’ambasciata, per screditarci. Si disse che era morta lì dentro. I rifugiati politici si agitarono molto. Era comprensibile: era un avvertimento per i ‘miristi’ asilati, e anche per i funzionari italiani, notoriamente ‘zelanti’. Quando arrivai io, Roberto Toscano, Damiano Spinola e Piero De Masi (altri diplomatici dell’ambasciata, ndr ) erano già  stati costretti a partire. Ora gli asilati temevano un’irruzione di squadracce o della Dina, i servizi segreti, per portarsi via qualcuno del Mir o del partito comunista. Per maggior sicurezza degli asilati, De Vergottini mi chiese di vivere con loro. In quel momento c’erano circa 120 persone. Ci rimasi un anno. I perseguitati saltavano l’alto muro di cinta dell’ambasciata. E voi accettavate la situazione che si creava. Ci rifacevamo al diritto di asilo. Le ambasciate godono della extraterritorialità , e le forze armate non possono entrare se non con l’espressa autorizzazione dell’ambasciatore, che a sua volta la riceveva da Roma. Poi in America Latina c’erano trattati di estradizione tra singoli stati. Fra Cile e Italia in verità  non ce n’erano. La giunta golpista rispettò sempre questo divieto d’ingresso? Sì. Ad un certo punto entrò uno strano personaggio, accompagnato da moglie e figlio di 8 anni. Era un ufficiale dei servizi della Forza aerea, pinochettista ma ricercato dalla Dina perché, dichiarò, aveva accusato un alto funzionario di essere un ladro, omosessuale e un criptocomunista. Io andai al ministero degli esteri, denunciai l’arrivo di questo signore, e dissi ai militari: ‘sappiamo che è un ufficiale dei vostri servizi, che sa molte cose e che cercherete di riprenderlo. Ma state attenti: di giorno l’ambasciata è vigilata da un carabiniere italiano armato. Di notte ci sarò io, e sono pronto a scaricare in aria due caricatori di un’automatica, avevo una P38 in effetti, sveglierò tutto il quartiere e voi dovrete dare spiegazioni alla stampa internazionale’. Dieci anni dopo De Vergottini, che era ancora a Santiago, mi riferì di aver incontrato il sottosegretario alla difesa dell’epoca che gli aveva rivelato che un commando era pronto a fare irruzione già  48 ore dopo l’arrivo di quell’uomo. Ma il ministro si oppose strenuamente perché l’operazione contro il diritto internazionale avrebbe portato il disdoro sulla giunta. ‘E poi quel matto di Barbarani sveglierà  tutto il quartiere’. La polizia cilena non entrò mai? No. O quasi. Dopo la morte di Lumi Videla, la giunta militare incaricò il giudice Araya di entrare nella residenza per interrogare gli asilati. Ma il giudice temeva per l’incolumità  e pretese di entrare accompagnato dalle guardie del corpo. Da Roma arrivò un fermo no. Dopo un mese di discussioni troviamo una soluzione. Il giudice entrò accompagnato solo dai suoi segretari, mentre fuori dal cancello rimasero i carabinieri per intervenire in caso di bisogno. Anche se i ‘segretari’ avevano occhialoni neri e forse qualche arma nascosta. Ma il giudice fu tranquillo, anche grazie al caffé italiano che il nostro maggiordomo, giacca bianca e vassoio d’argento, gli offrì in un servizio da caffé ancora con gli stemmi sabaudi. Assange prevede di restare un anno in ambasciata. Alcuni vostri asilati rimasero così a lungo? Il militare della Forza aerea rimase lì con la famiglia per tre anni e mezzo. Altri ricevevano l’autorizzazione per andare all’aeroporto anche in un mese. Per altri, come per il capo mirista Humberto Sotomayor, fummo sottoposti all’orrenda proposta di creare un falso incidente stradale nel tragitto per l’aeroporto, durante il quale se lo sarebbero portato via. De Vergottini rispose ‘mai’, e da allora tutti gli accompagnamenti dei rifugiati avvennero con corteo di auto di altri diplomatici, in caso servissero testimoni. Scongiurato il blitz, a Londra manca proprio il lasciapassare. La vicenda di Assange è lontana nel tempo e nello spazio a quella nostra di Santiago. Ma in ogni caso la scelta di forzare l’ambasciata, anche se Londra si appella a una legge che consentirebbe di farlo in casi estremi, sarebbe grave, inaudita.

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WIKILEAKS · A febbraio la ‘talpa’ andrà  alla sbarra

Il processo davanti alla corte marziale di Bradley Manning, il soldato americano accusato di essere la talpa del sito WikiLeaks, si aprirà  il 4 febbraio 2013 nella base militare di Fort Meade, in Maryland. Manning rischia l’ergastolo per «collusione con il nemico». Secondo il giudice che ha stabilito la data delle udienze, il procedimento dovrebbe durare fino al 15 marzo 2013. Il soldato 24enne è accusato di aver trasmesso, tra il novembre 2009 e il maggio 2010, documenti militari americani sulle guerre in Iraq e in Afghanistan, così come 260mila dispacci del Fort Meade (Stati Uniti).


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