Parigi, il cammino degli erranti

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PARIGI. Mentre già  tremila Rom sono stati espulsi da quando Hollande è presidente, in continuità  con la politica degli anni di Sarkozy (l’unica differenza è che adesso vengono evitate le dichiarazioni brutali e ideologiche), il Grand Palais dedica una grande mostra al mito della Bohème, dalle prime rappresentazioni delle popolazioni chiamate «egiziane» nell’epoca classica, fino all’appropriazione della figura del bohémien, libero ed errante, fatta dagli artisti a metà  del XIX secolo. Bohèmes (al plurale, perché la questione ha varie sfaccettature), dal 26 settembre al 14 gennaio, presenta un percorso attraverso più di duecento opere, da Leonardo fino al 1937, l’anno dell’esposizione sulla «arte degenerata» a Monaco, preludio al Samudaripen, la Shoah dei Rom, che portò al genocidio di più di seicentomila «nomadi» nei campi di sterminio nazisti. La mostra si apre con estratti del film di Laszlo Moholy-Nagy, del 1932, Grosse-Stadt Zigeuner (Grande città  zingara), dedicato alla comunità  che vive ai margini di Berlino.
La scenografia del canadese Robert Carsen accoglie il visitatore a pian terreno dell’ala Clemenceau del Grand Palais: una grande strada, con pavimento e muri marrone, che simboleggia attraverso una scelta di sobrietà  il cammino dell’erranza. Ai muri, scorre un viaggio di quattro secoli, dal Leonardo che illustra il tradizionale pregiudizio contro i Rom (Un uomo imbrogliato dagli Tzigani, un uomo saggio con la corona d’alloro che cede alla vanità  di farsi leggere la mano da una zingara mentre due compari gli rubano la borsa) fino a Manet, Renoir, Courbet, Bonnard, Van Gogh, passando per La Chiromante di Georges de la Tour o le rappresentazioni di vita vissuta di Jacques Callot, che hanno rappresentato la quotidianità  delle carovane e ritratto bohémiennes inquietanti e seducenti (manca però la veggente di Caravaggio, peraltro opera conservata al Louvre).
Il secondo piano ripercorre un periodo più breve, un centinaio di anni, dove si assiste alla metamorfosi della figura dell’artista in bohémien. La musica è molto presente (canzoni tzigane, Litz, Bizet, Puccini, Satie). Una sala è dedicata alla Bohème di Puccini, con gli acquarelli originali di Adolf Hohenstein sulla scenografia e i costumi della prima mondiale dell’opera, al Teatro Regio di Torino nel 1896. Il resto è una sequenza di sale che raccontano la leggenda della Bohème degli artisti, attraverso opere, tra l’altro, di Delacroix, Géricault, Courbet, Toorop, Cézanne, Daumier, Signac, Degas, Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Van Dongen, Picasso.
L’intenzione di riprodurre un ambiente intimo, delle mansarde sordide dove vivevano gli artisti bohémiens, dei loro atelier, dei cabaret e dei caffè della Parigi «scapigliata» di Montmartre, ha preso la mano allo scenografo Carsen, che ha abbandonato la sobrietà  della prima parte della mostra, per lasciarsi andare a un’esagerazione di allestimenti dal dubbio gusto (carta strappata ai muri per la «mansarda», quadri con la cornice dorata posati su cavalletti imbrattati, una vecchia stufa di ghisa in mezzo a una sala, tavolini e bancone di un caffè che impediscono la circolazione del pubblico).
Una sala è dedicata a Rimbaud e Verlaine, allestita sotto una yurta marrone e con un pavimento che sembra di fango, accanto a riferimenti – lungo tutto il percorso della mostra – alla letteratura che ha trattato del tema, da Cervantes a Victor Hugo o Mérimée. La sobrietà  dell’allestimento ritorna nell’ultima parte: di nuovo un corridoio marrone, questa volta molto stretto, per accompagnare i quadri di Otto Mà¼ller sugli Tzigani, che facevano parte della mostra sull’Arte degenerata del ’37, voluta dal nazismo e preludio dello sterminio.
«La mostra finisce con un’allusione al contesto dell’arte degenerata – spiega Carson – che permette di evocare non solo il rigetto degli artisti moderni, quegli stessi che prendono in considerazione i gitani in tutta la loro dignità , ma anche le misure di sterminio che hanno colpito questa popolazione».
Secondo il curatore, Sylvain Amic, direttore dei musei di Rouen, «a partire dal momento in cui questa specie di notte cade, come attraversarla come se nulla fosse? Questo modo brutale di chiudere l’esposizione ci riconduce alla realtà , dopo aver viaggiato in compagnia a delle rappresentazioni che sono dei fantasmi: certo, la vita dei bohémiens non è quella che i pittori e gli scrittori hanno rappresentato. Bisogna quindi abbandonare un universo fatto di convenzioni e tornare alla vera storia e il finale ci sveglia un po’ dal fantasma che abbiamo condiviso durante tutta la mostra».


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