Obama, il prevedibile

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Ma che – contro le speranze dei due partiti – i due grandi eventi mediatici non siano riusciti a smuovere significativamente i sondaggi, dipende meno dalle perturbazioni atmosferiche, quanto dalla stanca prevedibilità  dei messaggi emessi dalle conventions.
Poiché la pietra di paragone è la convention democratica del 2008 che lanciò la nomination di Barack Obama, ha ragione Alexandra Stanley del New York Times a scrivere che se allora fu innamoramento fra Obama e il pubblico americano, ora, quattro anni dopo, si tratta di salvare la coppia. E i repubblicani non stanno meglio, visto che con il loro candidato Mitt Romney non si è mai trattato di amore, bensì di «matrimonio combinato»: ecco perché tutte e due le conventions sembravano più sedute di consulenze matrimoniali che congressi politici.
Prevedibile il messaggio di Barack Obama: lasciatemi il tempo di portare a termine il cambiamento che vi avevo promesso, non consentite ai repubblicani di riprendere il potere con il ritornello economico che ci propinano da trent’anni con i risultati che sappiamo. Esattamente come era stato prevedibile il messaggio di Romney: il bilancio di Obama è stato deludente, non ha mantenuto nessuna promessa, non ha fatto aumentare l’occupazione, ha fatto esplodere il deficit.
Ma se Romney sperava con la convention di ribaltare a proprio favore almeno uno degli stati in bilico (swing states), la realtà  è che non è riuscito a convertire neanche la Florida dove si teneva la convention, nonostante la passerella sul podio di vari esponenti latinos a partire dalla giovane star ispanica, il senatore di quello stato Marco Rubio; invece il suo distacco è cresciuto in un altro swing state, l’Ohio.
I repubblicani continuano ad avere un problema demografico: cresce il peso delle minoranze (neri e latinos in primo luogo), dei giovani, delle donne single e dei gay, mentre la loro visione politica è sempre più razzista, bianco-centrica, anti-femminista, omofoba ed anti-giovani: di fatto il Tea Party è un movimento di ultrasettantenni. E i democratici sono saltati sull’argomento, tanto che a Charlotte si è sentito un vecchio bianco dello Iowa, il senatore Tom Harkin (72 anni), definire l’intervento di Clint Eastwood (82 anni) a Tampa il discorso di un «vecchio bianco inacidito».
Ma neanche i democratici possono gongolare. Anche qui ognuno ha fatto il suo: Obama si è presentato come lo sposo cosciente di aver commesso errori, Bill Clinton ha rivendicato i successi della propria lontana presidenza, il vicepresidente Joe Biden è stato delegato come ariete di sfondamento contro Mitt Romney. Ma più di questi discorsi ha contato l’estrema debolezza dei dati rilasciati ieri sul mercato del lavoro negli Stati uniti: ad agosto sono stati creati solo 96.000 nuovi posti (mentre, vista la crescita della popolazione, per mantenere il livello di occupazione servirebbero almeno 150.000 nuovi posti al mese). E’ vero che il tasso di disoccupazione è sceso dall’8,4 all’8,1%, ma solo perché ai 12,5 milioni di ufficialmente disoccupati, vanno aggiunti 2,5 milioni di «marginalmente facenti parte della forza lavoro» (disoccupati che non cercano più lavoro) e perché dal 2008 a oggi la forza lavoro è scesa negli Usa del 3 %, cioè di 7,5 milioni di persone. La somma di queste tre voci porta il totale a 22,5 milioni di espulsi dal lavoro cui andrebbero aggiunti 8 milioni che lavorano part-time a causa della crisi, oltre ai 2 milioni e passa di detenuti, per un totale di 32 milioni di americani disoccupati, usciti dalla forza lavoro o sotto-occupati su una popolazione civile occupata di 143 milioni di persone.
Queste statistiche sono state rese pubbliche dopo che la settimana scorsa il ticket repubblicano l’aveva sparata grossa promettendo 12 milioni di nuovi posti di lavoro, e dopo che giovedì sera Obama aveva promesso «un milione di nuovi posto di lavoro manifatturieri»: le statistiche di agosto dicono che l’industria non solo non ha creato posti, ma ne ha bruciati 18.000.
Di fronte a questi dati, conta poco la politica estera e il tema della sicurezza nazionale su cui, per la prima volta a sorpresa, i democratici sentono di essere forti: dalla tribuna di Charlotte il senatore John Kerry si è rivolto con grande finezza a Mitt Romney invitandolo ad andare a chiedere a Osama bin Laden se sta meglio ora con Obama o stava meglio quattro anni fa con i repubblicani.
Ma oggi, finiti i rituali scenografici, per quanto flosci, si passa al martellamento indefesso degli spot elettorali tv per cui i repubblicani stanno raccogliendo più di un miliardo di dollari di finanziamento. La vera battaglia si gioca infatti non tanto per la presidenza (per cui, a meno di imprevisti, Obama parte favorito), quanto per il Senato che il Grand Old Party (Gop) spera di sottrarre ai democratici e per la Camera dei rappresentanti in cui al contrario i democratici sperano di recuperare qualche seggio e di diventare meno minoritari.
Quello che resterà  delle Convention 2012 è il ricordo di uno sbrodolamento affettivo senza precedenti anche per una tradizione politica leziosissima: dalla tribuna di Tampa Ann Romney amava Mitt e Mitt amava Ann e Mitt ama suo padre George che ama la mamma di Mitt Lenore «così tanto da regalarle una rosa per ognuno dei 64 anni di matrimonio» (Alexandra Stanley). A Charlotte, Jill ama Joe Biden e Joe ama “Jilly” e Barack ama Michelle Obama e Michelle ama Barack anche più di quattro anni fa. Tutti a fare a gara a chi si ama di più tra di loro sperando di farsi amare anche dagli elettori.


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