“Non possiamo fare a meno di Mario” pressing di Washington e Berlino

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COME si può pensare che tra sei mesi possiamo fare a meno di Monti? La svolta della Bce è merito suo». Prima era solo sussurrato e da alcuni temuto. Adesso l’idea di un “Monti-bis” sembra essere qualcosa di più di un’ipotesi.
UN’IPOTESI che prende corpo intorno al cambio di marcia impresso dalla Banca centrale europea ai conti pubblici dell’Unione e dei paesi più in difficoltà  come Spagna e Italia.
Mentre a Cernobbio, salotto buono dell’industria e della finanza italiana, gli imprenditori non usano allora giri di parole nel reclamare un nuovo governo del Professore nel 2013, la medesima prospettiva sta lentamente diventando il vero oggetto del confronto tra le forze politiche. Soprattutto tra quelle del centrosinistra. E così non è un caso che domani, quando chiuderà  la sua festa di partito a Chianciano, Pier Ferdinando Casini si pronuncerà  più o meno esplicitamente a favore di un secondo mandato del Professore.
Magari con un governo “politico”, non tecnico. Con una maggioranza che non potrà  replicare la “strana alleanza” tra Pd e Pdl. Sta di fatto che l’ipotesi rischia di accompagnare l’intera campagna elettorale e soprattutto di rendere infuocato il confronto tra i democratici.
«Io mi limito a lavorare fino alla scadenza della legislatura», si schermisce da tempo il diretto interessato. «Non voglio fare progetti di questo tipo», mette le mani avanti. Eppure il presidente del consiglio è consapevole che il pressing nei suoi confronti non viene esercitato solo in Italia. All’estero l’insistenza è indefessa. Basti pensare ad Angela Merkel. «Cosa accadrà  nel 2013? Dopo le elezioni abbiamo la certezza che il percorso avviato dal-l’Italia vada avanti?», ha chiesto il 29 agosto la preoccupatissima Cancelliera tedesca. Nel faccia a faccia che si è tenuto a Berlino solo 9 giorni fa, “frau Angela” è stata davvero diretta con “Mario”. Tanto da costringere l’interlocutore a dare un bel colpo di freno: «I partiti che mi hanno sostenuto saranno capaci di proseguire il lavoro». Parole però che hanno convinto davvero poco l’alleata di Berlino. La quale, parlando in inglese, ha ricordato al suo ospite che in quel momento nessuno poteva ascoltarli. Del resto, la svolta impressa giovedì dalla Bce e l’apertura di credito
concessa di fatto anche al nostro Paese, mette i partner europei nell’urgenza di ottenere anche “garanzie” politiche oltre che economiche.
Discorsi che persino “Oltreoceano” sono ormai una costante. Il rapporto tra Obama e Monti ha rapidamente assunto il registro della sintonia quando il presidente americano ha capito di poter contare sul partner italiano per arginare le rigidità  di Berlino. E nei dossier che periodicamente l’Ambasciata Usa spedisce alla Casa Bianca, si fa riferimento sistematicamente alla “friendship”. Se ne è accorto a fine luglio Silvio Berlusconi al quale l’ambasciatore Usa Thorne ha chiesto con una punta di allarme: «Ma davvero lei vuole ricandidarsi? ».
Un forcing, appunto, che sta producendo effetti pure in casa nostra.
E che può trasformare le prossime primarie del Pd in un referendum tra “pro e contro”. L’allarme è già  scattato ai piani alti dei democratici. Il segretario Bersani è consapevole che sul tavolo esiste anche la carta del “Monti bis”. Sa soprattutto che una fetta del suo partito si muove in quella direzione. E finanche il conflitto generazionale e le divisioni tra gli stessi “giovani ribelli” sembrano ormai profilarsi su questo argomento. Basti pensare che Matteo Renzi, il primo competitor di Bersani, ha l’altro ieri incontrato Monti facendo cadere nel discorso una riflessione piuttosto indicativa: «Ho paura che tutti gli sforzi compiuti dall’Italia fino ad ora, poi possano essere dispersi ». Niente di più in quel faccia a faccia. Anche se in privato il sindaco di Firenze non nasconde che in caso di vittoria alle primarie potrebbe mettere a disposizione il suo mandato proprio del Professore.
E forse non è un caso che un personaggio esperto come Massimo D’Alema, capace di capire in anticipo come e dove soffia il vento, abbia nei giorni scorsi avvicinato il premier per perorare la corsa di Bersani verso Palazzo Chigi e accennare alla circostanza che nel 2013 dovrà  essere eletto anche il nuovo presidente della Repubblica. Una casella, in effetti, che molti nel centrosinistra considerano un via d’uscita più che onorevole per Monti e per soddisfare le ansie di «stabilità » provenienti dall’estero. Ma nel risiko di poltrone che tutti in questi giorni maneggiano, il leader democratico indica anche altre opzioni. Da tempo ripete ai suoi fedelissimi che se vincerà  le prossime elezioni, l’ex rettore della Bocconi avrà  un ruolo primario nel governo, un ruolo di “garanzia” rispetto all’Europa: ministro dell’Economia e degli Esteri. Ma per questa soluzione è indispensabile una vittoria netta del Pd, senza il sostegno determinante dei centristi di Casini.
Una situazione, dunque, che presenta tutti gli elementi per rendere burrascosa l’ultima fase della legislatura. Tant’è che lo stesso Monti è intenzionato a rassicurare il segretario del Pd. «Bersani è stato sempre leale con me – è il ragionamento che il premier fa ogni volta che un interlocutore gli chiede di proseguire il suo mandato – e mi ha sostenuto con decisione. Io sarò sempre leale con lui».
Nonostante i “no” ripetuti in pubblico dal Professore, le manovre per rendere possibile la sua conferma tagliano trasversalmente gli schieramenti. Lo stesso Cavaliere
gioca per il “pareggio” e per il reincarico. Al punto che in diversi sono saliti al Quirinale per suggerire al capo dello Stato di anticipare solo di un paio di mesi la data delle elezioni: febbraio anziché aprile. I precedenti ci sono (1992 e 2006). Una road map che consentirebbe allo stesso Napolitano di gestire il dopo-voto e di assegnare l’incarico di formare il governo come ultimo atto del settennato. E chi sa se prima di allora Palazzo Chigi non decida di convocare un ultimo vertice di maggioranza tra Abc per stilare un “memorandum” finale di impegni. Anche per rassicurare i mercati e le istituzioni di Bruxelles.


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Il referendum è riemerso dagli abissi nel quale era stato sospinto e ha mostrato tutta la sua forza. Più volte negli ultimi sedici anni si era tentato di svegliarlo dal suo torpore, ma ogni volta era rimasto dormiente, facendo fallire i sogni di chi – con le più diverse intenzioni – ha provato ad appellarsi al popolo. Ma “il popolo” non rispondeva.

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