Nel «barrio» dei Tupac Amaru
SAN SALVADOR DE JUJUY. Messo in soffitta il neoliberismo sfrenato dell’era Menem che l’aveva portata al crack del 2001, l’Argentina vive oggi un vero e proprio boom economico e sociale. Una delle esperienze più interessanti, in questo clima, è rappresentata dal Movimento Tupac Amaru, anzi dalla Organizacion Barrial Tupac Amaru. È difficile una traduzione corretta del termine barrial: in senso letterale sarebbe “di quartiere” o “di paese”, ma la natura politica e lo spirito del movimento suggeriscono “di comunità “.
La Tupac è presente in tutta l’Argentina ma ha il suo maggior radicamento nella provincia di Jujuy e nella città capoluogo che è San Salvador de Jujuy. In quest’area, alle pendici delle Ande e non lontano dal confine boliviano, l’organizzazione esercita in maniera capillare il suo intervento sociale. Per avere un’idea della forza e del radicamento basti pensare che le piccole cooperative ad essa aderenti sono riuscite a produrre, con un complesso meccanismo di autocostruzione finanziato dal piano di nazionale edilizia popolare, un intero villaggio di cinquemila alloggi per un pari numero di famiglie. E altri villaggi più piccoli in tutta la provincia. I motivi alla base del successo stanno soprattutto nella capacità dei suoi militanti originari e degli attuali dirigenti di dar voce alle popolazione indigena, che peraltro costituisce la maggior parte della popolazione locale.
Un movimento anti-ideologico
L’organizzazione prende il nome dal leader che a fine Settecento – all’epoca delle lotte per l’indipendenza nazionale – aveva guidato la battaglia per i diritti e l’avanzamento sociale delle popolazioni indigene: un cacique che portava anche un nome ispanico e che è ritenuto discendente dell’ultimo re inca, del quale prese anche il nome. Il mito di Tupac Amaru è diffuso in tutta l’America del Sud: basti ricordare il movimento dei tupamaros in Uruguay negli anni sessanta e settanta, dal quale per altro provengono il presidente e autorevoli membri dell’attuale governo progressista in quel paese. Ma qui in Argentina, e in particolare nel Jujuy, c’è un riferimento preciso alla tradizione indigena, non un generico riferimento ideale a un eroe popolare.
Nel farsi portavoce delle aspirazioni della popolazione indigena, l’organizzazione non manca di sottolineare il suo orientamento anti-ideologico. Anzi, essa è spesso in polemica con i marxisti locali. Per converso, ha ottimi rapporti con la sinistra peronista di governo, in particolar modo con la ministra degli Affari sociali Alicia Kirchner. Essa infine si dichiara decisamente pacifista, nonostante sulle case che costruisce, sulle magliette dei suoi aderenti, sugli abiti da lavoro e sui muri degli asili infantili siano presenti le icone di Tupac Amaru, Evita Perà³n e Che Guevara.
In questo c’è una logica ben comprensibile. Che Guevara – che era argentino, fattore non secondario – è il Che della rivoluzione latinoamericana, qui vista in versione umanitaria. Sui muri dei saloni delle assemblee e delle scuole popolari costruite e gestite dalla Tupac si leggono frasi come «bisogna essere duri senza perdere mai la propria tenerezza». Di Tupac Amaru ho detto. Quello che è più difficile da digerire per noi è il culto di Evita Perà³n, che nella storia non è stata né il personaggio del film di Madonna e Banderas, né la fascista che abbiamo in mente noi, né solo la grande propugnatrice dei diritti dei popoli oppressi come molti ritengono qui. Evita è molto amata a sinistra e negli ambienti popolari perché ha prodotto una linea antioligarchica e pro-sindacato (sia pure alla maniera peronista) e soprattutto a favore del welfare. E il welfare – cioè la spesa pubblica per politiche sociali – c’entra molto in questa storia (come in generale nella storia dell’Argentina moderna).
I Tupac nascono, come molte organizzazioni democratiche, durante la fase di grande disoccupazione ed estremo incremento della povertà causato dalle privatizzazioni e dalla scellerata politica monetaria di Menem (con conseguente chiusura massiccia di fabbriche e fallimento complessivo dell’economia). All’inizio del movimento c’è la saldatura tra una pratica di intervento politico-sociale e una di solidarismo che è quello della copa de leche. Una tradizione di aiuto comunitario che non è specifica dell’area del Jujuy: dei militanti si mettono insieme nel fornire un servizio di assistenza, espresso appunto dalla tazza di latte ai bambini, un piatto di riso e altri aiuti alle famiglie più povere, e facendo una propaganda organizzativa basata soprattutto sulla questione del lavoro. D’altronde la leader indiscussa dell’organizzazione, Milagro Sala, proviene dalle fila del sindacato, anche se nel complesso della strategia attuale del movimento questo non sembra essere un aspetto determinante.
Le cooperative edilizie
La struttura di base originaria, la copa de leche, è attiva tuttora con le stesse funzioni: mobilitazione, educazione politica e servizio sociale. L’altra struttura di base dell’organizzazione è rappresentata dalle cooperative edilizie, costituite da un numero ristretto di soci che esprimono un delegato. I delegati delle cooperative, delle fabbriche e delle copas de leche, insieme a delegati degli insegnanti e di altre figure (soprattutto tecnici occupati nei servizi: medici etc.), formano l’assemblea, una sorta di parlamento che nomina una struttura di direzione al cui vertice sta Milagro, leader indiscussa. Non manca certo un po’ di culto della personalità . Ma giova ricordare a questo riguardo che anche la stampa indipendente mostra uno stupito apprezzamento per quello che l’organizzazione è riuscita a fare sotto la sua leadership: «los milagros de Milagro», «i miracoli di Milagro», titolava di recente un articolo. E bisogna comprendere l’organizzazione e il movimento nel suo contesto storico e locale.
Nel suo consolidamento e nella sua pratica aggregativa l’organizzazione si è inoltre fondata sul riferimento all’identità “indigena”. Il riconoscersi in questa appartenenza è un valore che l’organizzazione propugna proprio per rivalutare un’identità culturale repressa e negata da sempre. Credo che anche il riferimento alla spiritualità indigena – e gli stessi rituali e le feste che si celebrano – vogliano sottolineare una recuperata dignità non inventando, bensì difendendo un’antica tradizione comunitaria.
La più grande concentrazione di aderenti vive nel quartiere di edilizia residenziale al quale ho fatto riferimento prima, noto appunto come El barrio de la Tupac Amaru. Si ha l’impressione di una gated community per poveri e lavoratori a causa di una sorta di controllo all’ingresso (per altro solo in questo barrio), ma bisogna considerare che qui le provocazioni non mancano. In compenso il Barrio è effettivamente una comunità , dovuta alla omogeneità politica e culturale degli abitanti. Ma questo non mi pare un limite, a meno che non si voglia considerare tale la realtà dei paesi comunisti bracciantili e mezzadrili del Sud e del Centro Italia di una volta. Infine i barrios della Tupac – non solo quello di San Salvador – hanno tutti dei luoghi assembleari e delle strutture di servizio, mentre i grandi spazi destinati ad area di gioco hanno la funzione di consolidare la vita sociale e comunitaria.
La casa e il lavoro
Mi sembra molto importante sottolineare il nesso mobilitazione-lavoro-casa che ha permesso il successo e lo sviluppo dell’organizzazione. Le casette unifamiliari a piano terra, tutte uguali secondo il dettame del piano nazionale di edilizia popolare, sono costruite dalle cooperative della Tupac Amaru, le quali sono riuscite a farsi assegnare gli appalti grazie alla loro forza concorrenziale, legata a sua volta al fatto che agiscono come un sistema di autocostruzione a prezzi molto contenuti. I salari di base sono molto modesti, ma sono quelli sindacali dell’edilizia. Le cooperative producono ricchezza per il fatto che non c’è profitto e non c’è da pagar clientele. Non c’è gran bisogno di tecnici, data l’estrema semplicità e standardizzazione del prodotto edilizio. Inoltre, ci tengono molto a lavorare “dal basso” con maestros de obra invece che architetti. Infine, nel Barrio Tupac Amaru di San Salvador c’è anche una fabbrica cooperativa che produce i manufatti edilizi di base (blocchi di cemento, piccole travi di cemento armato, monoblocchi di cucina), che riducono ulteriormente i costi e danno occupazione ad altri lavoratori.
Per quanto riguarda poi il salario, la portata del miglioramento si può comprendere solo tenendo conto delle condizioni di partenza e di quelle che ancora esistono nell’agricoltura e nelle altre attività locali. Pensiamo all’enorme zuccherificio presente a Calilegua, il cui padrone, Blaquier, sta per essere condannato per crimini contro l’umanità perché consegnava gli attivisti del sindacato in fabbrica ai militari per un destino di torture e sparizioni. Anche il confronto tra il villaggio Tupac di San Pedro e l’aggregato di baracche (con una latrina ogni trenta persone e senza acqua in casa) creato da un altro zuccherificio, La Esperanza, dà una chiara idea dei passi in avanti compiuti grazie alle lotte e alle mobilitazioni della Tupac Amaru. La lotta iniziale per il lavoro ha trovato uno sbocco soprattutto nelle opportunità create dal piano nazionale per l’edilizia popolare del governo Kirchner, che è riuscito a saldare politica per l’occupazione e politica di welfare.
L’edilizia è stato l’ambito nel quale questa lotta ha sfondato. Era la lotta «per un lavoro degno». E tale è quello che si svolge. Va inoltre considerata l’assenza o la minore alienazione (intesa sia in senso marxiano che della sociologia). Si lavora insieme «al bien comun», come dicevano una volta i contadini spagnoli. E non c’è il padrone che, nello sfruttarti, organizza tempi e metodi.
Che fare? Il partito, o forse no
Qui si apre un problema pratico e di prospettiva: che si farà quando la domanda di costruzioni (al livello a loro accessibile) sarà terminata? Che farà chi già da ora non vuole, o non può, lavorare o, per la sua qualificazione, è sprecato nell’edilizia? Qualcuno ora è impiegato nelle fabbriche cooperative: nella fabbrica tessile hanno un appalto della Nacià³n per confezionare grembiuli per le scuole elementari pubbliche e producono anche abiti da lavoro e vestiti più raffinati che sono venduti in un loro negozio della capitale. Inoltre hanno una fabbrica metalmeccanica e altre attività minori all’interno dei barrios più grandi. Ma è ancora poca roba. C’è poi del personale di livello medio-alto impegnato nei servizi sociali gestiti a integrazione di un welfare statale debole: scuole primarie e secondarie, ambulatori, in parte importanti per la loro gratuità , in parte con una funzione anche da biglietto da visita, ma con medici e infermieri al lavoro. L’utenza è generale, non esclusiva degli aderenti al movimento, i quali però hanno la precedenza.
Può comprendersi come questa situazione, proprio per la sua rete di servizi e la sua organizzazione di comunità , possa dare un’impressione di uno Stato nello Stato (e su questo insistono i critici malevoli). D’altronde c’è un effettivo rischio di isolamento tanto più forte quanto più diventa grande il movimento. E probabilmente di questo sono coscienti i suoi aderenti, che ora spingono in direzione della trasformazione in partito politico, investendo altre tematiche e coinvolgendo settori più ampi della popolazione.
Non credo di aver esagerato, almeno non troppo. Di queste realtà – che mostrano la portata dei cambiamenti in America latina – si sa poco da noi. Ha ragione Robert Castel, che era parte della nostra delegazione, quando, intervistato dall’agenzia di stampa Telam, afferma che «l’esperienza della Tupac è inedita e particolare. Pensavo a qualcosa di molto più artigianale e improvvisato che tentava di rispondere alle esigenze della gente. Non è così: c’è una istituzione reale con molto potere e un grande movimento». In effetti essa esprime il nuovo corso dell’Argentina e dell’America latina. IL SOCIOLOGO ENRICO PUGLIESE
Da Rossi Doria al Cnr,
tra immigrati e terza età Allievo di Manlio Rossi Doria alla Facoltà di Agraria di Portici, dopo diverse esperienze in università americane (dalla Columbia all’Università della California), Enrico Pugliese è stato professore di Sociologia del lavoro e preside della Facoltà di Sociologia a Napoli. Dal 2002 al 2008 è stato direttore dell’Istituto di ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Cnr. Il suo ultimo libro è La terza età . Anziani e società in Italia (Il Mulino, 2011). Attualmente è Professore ordinario di Sociologia del lavoro alla Sapienza a Roma. Vecchia firma del manifesto, in particolare sui temi dell’immigrazione, in questa occasione ha volentieri «sconfinato» in un territorio da lui mai battuto.
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LE ICONE DEL MOVIMENTO
ERNESTO CHE GUEVARA
Di Ernesto Rafael Guevara de la Serna si sa tutto: guerrigliero, scrittore, medico, rivoluzionario, ucciso in Bolivia il 9 ottobre del 1967. Da allora è un’icona della sinistra rivoluzionaria mondiale. E non solo.
TUPAC AMARU
Fu l’ultimo sovrano del regno di Vilcabamba, nella seconda metà del ‘500. Il regno andino fu l’ultimo tentativo di autogoverno degli inca dopo la colonizzazione spagnola. Per questo Tupac Amaru è considerato un’icona dell’anticolonialismo.
EVITA PERà“N
Seconda moglie di Juan Domingo Perà³n, militare e presidente dell’Argentina dal 1946 al 1955 e dal 1973 al 1974, dopo le nozze divenne una celebrità in Argentina. Ma in Europa divenne un’icona dell’estrema destra.
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