Mozart, i sussurri e la dignità  della sofferenza

by Sergio Segio | 3 Settembre 2012 7:12

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Chi ha avuto occasione di incontrare in questi ultimi anni il cardinale Carlo Maria Martini, ha ricevuto da lui un’ulteriore lezione di vita oltre che di fede. Il morbo di Parkinson non riuscì a privarlo della sua energia interiore; né il suo fisico, continuamente messo a dura prova, lo aveva portato a forme di sfiducia o di disperazione. Lucidissimo nella mente, Martini perdeva giorno dopo giorno la capacità  di scrivere a mano, ma rimediava con gli ultimi prodotti della tecnica: lavorava al computer o con l’iPad, spediva e riceveva mail direttamente. Fino a quando la voce glielo consentì, telefonava con un cellulare. Le difficoltà  di movimento, che si sono progressivamente aggravate, sino a costringerlo alla sedia a rotelle (con essa si recò agli incontri con papa Benedetto XVI nel 2011 a Roma e nello scorso giugno a Milano) non gli impedirono di leggere, studiare, realizzare libri.

La perdita progressiva della parola fu forse il problema più sentito, ma nemmeno questo lo scoraggiò. Gli ultimi mesi egli comunicava attraverso il sacerdote che lo assisteva: il cardinale sussurrava, don Damiano Modena amplificava quanto era appena accennato o si ricavava dai movimenti della bocca. Ma un «sì» o un «no» venivano anche dal suo sguardo; una sospensione di giudizio o un invito ad approfondire giungevano da un gesto. Nel novembre 2011 dinanzi a un quesito sugli angeli — l’autore di una lettera a lui spedita avrebbe desiderato chiarire il loro ruolo e altro con le forze della ragione — rispose aprendo entrambe le braccia. E con un soffio di voce riuscì a pronunciare: «Come si fa a dirlo?».
Le sue giornate erano intense, sempre con la messa. Aveva un’agenda fitta di appuntamenti. Teologi, prelati, persone che incontrò ma anche gente comune, che mai assistettero a una sua lezione al Pontificio Istituto Biblico o in Gregoriana o ebbero relazioni con l’arcivescovo che fu, erano ricevuti continuamente nelle due stanze all’Aloisianum di Gallarate. I problemi che il suo corpo manifestava li scavalcò: ascoltava, consigliava, trascorreva vacanze in montagna (la amava molto), faceva brevi visite. Era, tra l’altro, un eccellente intenditore di musica. Anche in tal caso, la riproduceva con tutti gli ultimi ritrovati. Il suo autore preferito? Mozart. Anche se prediligeva Bach e le note sacre, i canti della tradizione ebraica e la sinfonica in genere, dinanzi a Wolfgang Amadeus si commuoveva. Sentendolo pronunciare, nel maggio scorso, fece il gesto dell’ok, unendo l’indice al pollice e lasciando medio, anulare e mignolo levati.
La sofferenza fisica, i ricoveri in ospedale e le continue cure, la stessa difficoltà  prensile le compensava con una serenità  estrema. Tutto gli giungeva forse da una forza interiore unica, anche se era rimasto timido, dubbioso, riservato. Un giorno dell’aprile 2011 — le sue parole allora si comprendevano — ricordò l’importanza degli Esercizi di Sant’Ignazio e la loro capacità  di rendere forti le parti deboli che abbiamo in noi. Lui, comunque, ebbe anche altro. Questi ultimi anni si comportò come se avesse voluto mettere in pratica le parole del Sermone della Montagna. Rinunciò con un semplice gesto a tutto, anche ai privilegi che avrebbe potuto invocare, preferendo infine mettere sul campanello dei suoi due locali quel «padre» che lo faceva ritornare nella Compagnia di Gesù. In silenzio e povertà . Ma con qualcosa che gli consentiva il sorriso. E, infine, di attendere, senza turbarsi, la morte.

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